ALTRA PSICOLOGIA LO DICE DA SEMPRE:
IL COUNSELING È UN’ATTIVITÀ DELLO PSICOLOGO!
Ora, Amici Miei, la “supercazzola con scappellamento a destra come fosse antani” utilizzata negli anni dai vari counselors per cercare di sostenere che si tratti di qualcosa di differente e non sovrapponibile al nostro lavoro sono solo tentativi di esercitare un’attività che attiene alla nostra professione senza avere i titoli e, soprattutto, la formazione adeguata.
Un po’, sempre per disturbare il compianto Monicelli, come se si tentasse di convincere un gruppo di turisti che la Torre di Pisa si può raddrizzare tirando a mano qualche corda…
E invece, ci vuole ben altro: competenze specifiche che possiedono solo i professionisti che hanno svolto un adeguato percorso: psicologi e psicoterapeuti, a seconda delle competenze da attivare.
OGGI LA SENTENZA DEL TAR DEL LAZIO LO AFFERMA IN MODO CHIARO E INEQUIVOCABILE.
I FATTI
Con la Legge 4/2013 sulle professioni non regolamentate i counselors trovano un nuovo varco in cui cercare di infilarsi per accreditarsi come professione.
Tuttavia, all’art. 2 della Legge viene definito cosa sia una professione non regolamentata e quali attività debbano essere escluse: “si intende l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art. 2229 del codice civile, delle professioni sanitarie e delle attivita’ e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative”.
Mentre, all’art. 6, comma 2, viene ulteriormente ribadito che “ai professionisti di cui all’art. 1, comma 2, anche se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non è consentito l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale”.
Chiaro, no? Per qualcuno…non ancora.
Infatti il problema, lo sappiamo bene, è che i counselor da sempre sostengono che loro non si occupano delle patologie, ma dello sviluppo delle potenzialità, di forme di disagio lieve, di migliorare la relazione con gli altri, rinforzare le capacità di scelta e dare uno spazio di ascolto. E molti altri “antani”. Tutte attività che noi, da sempre, sappiamo essere caratteristiche della nostra professione, ma pare che loro non se ne siano accorti.
Il 10 settembre 2014 il Ministero dello Sviluppo Economico inserisce Assocounseling nell’Elenco delle associazioni professionali non regolamentate e delle loro forme aggregative (come previsto sempre dalla richiamata Legge).
Due mesi dopo, il CNOP si oppone a tale provvedimento e ai vari pareri dei Ministeri che ne avevano permesso l’inserimento, sostenendo proprio come le definizioni date dall’associazione in merito alle attività svolte dai counselor si sovrappongano a quelle dello psicologo.
Ad oggi, finalmente, la sentenza del TAR, inequivocabile.
Ricordiamo, per dovere di cronaca, che questa non è la chiusura definitiva del caso.
Assocounseling può ancora opporsi e, allora, si attenderà il responso del Consiglio di Stato. Ma è certamente, una prima grande vittoria della categoria su una criticità che Altra Psicologia per prima, e da sempre, ha sottolineato e combattuto.
Gli estratti più interessanti della sentenza:
“L’AssoCounseling ha definito l’attività dei propri associati, il counselling, come “attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. E’ un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il Counseling può essere erogato in vari ambiti quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale.” Premesso che tale descrizione dell’attività dell’AssoCounseling non è contenuta nello Statuto, ma è stata fornita in un allegato alla dichiarazione trasmessa con la domanda di inserimento, essa è anche talmente generica da potere comprendere una vasta gamma di interventi sulla persona, sfuggendo ad una precisa identificazione dell’ambito in cui la stessa viene a sovrapporsi all’attività dello psicologo”.
“Certamente, poi, è evidenziabile una interferenza con il settore di intervento degli psicologi cd. Junior”
“La promozione dello sviluppo delle potenzialità di crescita individuale, di integrazione sociale, la facilitazione dei processi di comunicazione, il miglioramento della gestione dello stress e della qualità di vita, tanto per limitarci ad uno dei sottosettori di intervento dello psicologo junior, appaiono perfette duplicazioni dell’attività del counselor descritto dalla Assocounseling”.
“Non può non convenirsi con i ricorrenti che la gradazione del disagio psichico presuppone una competenza diagnostica pacificamente non riconosciuta ai counselors e che il disagio psichico, anche fuori da contesti clinici, rientra nelle competenze della professione sanitaria dello psicologo”
“L’art. 1 della legge 18 febbraio 1989 n. 56, nel definire la professione di psicologo, recita: (…) In tale definizione, tutt’ora vigente, è certamente ricompresa ogni forma di disagio psichico ed in qualsivoglia contesto”.
“Ne consegue che l’avere ritagliato, come ha fatto il Consiglio Superiore di Sanità, da tale ambito di intervento, un’area di intervento, oggi certamente riservata allo psicologo junior (…), quando non allo psicologo “senior” con specializzazione in valutazione psicologica e consulenza, si pone in palese violazione della legge 56/1989”.
“Ciò a cui deve guardarsi è l’ambito di attività del professionista iscritto all’ordine professionale e, nel caso di specie, tale ambito viene in parte a sovrapporsi a quello del counselor, come definito nell’impugnato parere del Consiglio Superiore di Sanità”
“La circostanza che il legislatore, nel definire la professione di psicologo nella legge n. 56 del 1989, abbia usato il termine “comprende”, anziché la locuzione “riserva”, non esclude che si tratti di attività per la quale è competente lo psicologo ed equivale ad una riserva, nei limiti in cui la definizione di tale ambito sia idonea ad identificare l’oggetto della attività professionale”.
“E’ certamente il caso dell’attività psicoterapeutica (…) e del counseling, per quanto può ricavarsi dal Decreto MIUR del 24 luglio 2006, di Riassetto delle scuole di specializzazione di area psicologica, nel quale “la valutazione ed il counseling” identifica una delle quattro tipologie di scuole di specializzazione di area psicologica.
“La definizione dell’attività non regolamentata del counselor, contenuta nel parere del Consiglio superiore di Sanità e recepita dal Mise, non consente a questi operatori di non sconfinare nel campo proprio degli psicologi (…), senza considerare che l’attività di counseling è anche materia di scuole di specializzazione riservate a psicologi”.
Col rispetto dovuto alla persona, raramente ho visto un simile cumulo di sciocchezze. Se la parola “riserva” significa “comprende” allora è da rivedere l’intero assetto della lingua italiana nel suo complesso.
Il fatto poi che il TAR abbia pensato di poter decidere in tal modo sulla base della definizione utilizzata, “La promozione dello sviluppo delle potenzialità di crescita individuale, di integrazione sociale, la facilitazione dei processi di comunicazione, il miglioramento della gestione dello stress e della qualità di vita”, ad esempio, è di per se stesso folle. Con questa ratio sarà obbligatoria una iscrizione all’Albo degli Psicologi (Junior: di suo già una aberrazione) anche per fare gli insegnanti, i sacerdoti, i catechisti, gli educatori (ci avete già provato, del resto), i formatori, i trainers, gli amici, i genitori e molto altro.
Equiparare disagio psichico, autosviluppo e diagnosi é oltre che totalmente fuori legge al limite del criminale; quale é lo psicologo in grado di operare diagnosi? Sulla base di cosa? A che titolo? In quale momento si evince che il Counselor ritiene di poter operare diagnosi?
A parte la trivialità della discussione, che nasce solo nel momento in cui l’Albo per tutelare una evidente incapacità dei suoi iscritti a reggere la richiesta di mercato (prezzi troppo alti, efficacie ed efficienza sempre discutibile, teorie mille volte farraginose, addestramento alla cura della persona prossimo allo zero se non peggio), ci sono due problemi di enorme portata che vanno necessariamente considerati in questo frangente.
Il primo: i limiti dello stesso apparato giuridico cui ci si affida mani e piedi. Oggi gli psicologi di entrambi gli Albi si avventurano in diagnosi e terapie e cure alla persona, di vario genere, di fatto accaparrandosi prerogative che sono degli psichiatri, in primis, e degli psicoterapeuti, in seconda battuta – la distinzione di grado è necessaria, visto il grado di preparazione e gli anni di studio devoluti, diversissimi. Con quale diritto?
Il secondo: la descrizione ondivaga, vaghissima e onnicomprensiva delle attività che spettano allo psicologo di diritto ricomprende, nel momento in cui si trovi un Giudice connivente, praticamente ogni ambito delle discipline umanistiche che riguardano il lavoro sulle persone entro i limiti della chirurgia e della diagnosi organica (salvo poi che non si tratti di diagnosi di malattie psicosomatiche, nel qual caso ci si avvicina alla totalità). E’ questo un modo di gestire una professione?
Quella degli Albi é una distorsione protezionistica tutta italiana, sorta per evidenti necessità di base qualitativa delle professioni e rapidamente assurta a corporazione inattaccabile. In Europa non hanno dubbi: non può esistere una professione che si accaparri il diritto di fare tutto quello che fanno gli altri, ma vietando agli altri quello che non vogliono vedersi portato via. E anche nel nostro Paese siamo pericolosamente vicini ad una seria messa in mora di tale sistema. Che, peraltro, non è per niente utile a chi lo frequenta, infondendogli una falsa sicurezza e confortandolo nella fiducia di una professionalità che non é tale. Io vorrei proprio vedere un laureato alla triennale in grado di imbastire anche solo la premessa di un corso di comunicazione, o addestrare personale al trattamento di situazioni di crisi, o formare operatori della salute e della cura alla persona. Per non parlare degli strumenti diagnostici e di analisi, tipo il Big Five, per intenderci. E’ una situazione dalla quale gli psicologi per primi – e moltissimi già lo fanno – dovrebbero prendere le distanze.