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L’INDAGINE

Nel mese di gennaio il gruppo di Altra Psicologia Emilia Romagna ha svolto gli incontri con i colleghi per discutere dei risultati del questionario diffuso fra gli psicologi del territorio.
L’indagine non aveva pretesa di scientificità o adeguata rappresentatività della popolazione generale, ma voleva essere un semplice spunto per iniziare a riflettere su quanto emergeva in merito alle necessità più avvertite dai colleghi della regione. Tuttavia, il numero delle persone che si sono impegnate nella compilazione non è stato affatto esiguo, avendo raggiunto quota 187 con una divisione per genere piuttosto simile a quella dell’intera categoria, in quanto le donne rappresentano l’88% del totale dei partecipanti.
Fra le risposte pervenute, alcune risultano in linea con le aspettative, altre appaiono ad un primo sguardo abbastanza divergenti da quanto ci si aspetterebbe e richiedono, forse, uno sforzo interpretativo maggiore.

 RISULTATI E RIFLESSIONI


Bisogni nel rapporto fra colleghi

La stragrande maggioranza delle risposte proviene dai liberi professionisti (81%, suddiviso fra 62% che svolge unicamente tale attività e un 19% che ha anche occupazioni estranee alla psicologia), come ci si poteva attendere e, soprattutto, da “giovani” iscritti all’Ordine, cioè con anzianità di iscrizione fra i 5 e 10 anni (la metà del campione totale).

Alla prima domanda, cioè “di cosa c’è bisogno nel rapporto fra colleghi ?” la grandissima parte delle risposte si è distribuita fra “collaborare (iniziative insieme, progetti, reti di scambio, ecc.)” – 37% – “covisione e formazione fra pari” – 24% – e “fare attività per la promozione e la tutela della categoria” – 23% – mentre “conoscere i colleghi” e “farsi conoscere dai colleghi” sembra avere molto meno appeal.

Dalla lettura del risultato si può dedurre che ciò che più sembra interessare ed essere necessario non è la semplice conoscenza fine a se stessa quanto l’attivazione comune su dei progetti o delle iniziative rivolte a terzi o anche ad una formazione interna alla pari.

Ciò porta ad una prima riflessione in merito alla consapevolezza di un maggiore contatto fra di noi anche ai fini di una forza di impatto superiore sul potenziale cliente finale. Certamente agire insieme, mostrarsi come gruppo compatto e non come singolo isolato professionista può dare all’utente l’impressione di una realtà più strutturata e meno “improvvisata”, soprattutto in un momento storico in cui il concetto di rete è particolarmente in auge. Allo stesso modo, ciò influisce direttamente anche nel determinare una riduzione del senso di isolamento del singolo psicologo.
La nota critica, però, rimane nella gestione quotidiana; infatti, dal nostro piccolo osservatorio, ciò che emerge è che, se anche il desiderio, l’immagine ideale è quella di unirsi e collaborare, nel pratico questo desiderio sembra cadere nel vuoto di una realtà in cui i colleghi faticano a condividere e anche solo a mantenere le reti o ad attivarsi per crearne. Sembra, insomma, che ci sia uno scollamento, nella maggior parte dei casi, fra il pensiero e l’azione.

Formazione

In merito alla formazione, un altro dato che colpisce è notare come le necessità più avvertite siano relative a “formazione permanente” (non necessariamente riconosciuta), ad “informazioni sulla professione” e “autopromozione/autoimprenditoria”. Segue solo ad una notevole distanza (poco più di un quarto dei colleghi) la necessità di “formazione riconosciuta”.
Queste risposte sembrano, quindi, mettere in evidenza come lo psicologo senta la necessità di formarsi ed informarsi, ma probabilmente dia poco peso all’ECM se non per il suo valore di “punteggio”. Evidentemente molto meno nella sua funzione di “apprendimento di valore”. Purtroppo, sappiamo tutti bene come il sistema ECM sembri essere spesso e volentieri un mezzo di raccolta soldi, dove la quantità (dei partecipanti e, quindi, delle somme incassate) pare contare di più della qualità (dell’insegnamento). Chiaramente ciò non è vero sempre e comunque, ma spesso il “bollino” non corrisponde a maggiore qualità.
C’è poi da aggiungere come tale struttura non sia neanche adattata sulle esigenze specifiche della categoria, che è innanzitutto molto diversificata nei suoi settori applicativi, mentre i corsi accreditati rientrano esclusivamente nell’ambito clinico.
Si potrebbe aprire qui un interessante dibattito in merito alla strutturazione di un sistema FCP (formazione continua in psicologia) molto più modellata sulle specifiche necessità di categoria piuttosto che questo modello di adesione acritica (ancora una volta!) al modello medico. Ma non è questa la sede, anche se mi piace lanciare il tema come stimolo di riflessione.

I bisogni sul territorio

L’ultimo dato dell’indagine, piuttosto interessante, emerge in merito ai bisogni sul territorio, dove i colleghi danno la preferenza al farsi conoscere dai professionisti, dai servizi presenti e conoscere gli stessi più che al farsi conoscere dalla cittadinanza, cosa che realizza un interesse solo per un sesto dell’intero campione.

Questo dato può essere interpretato in molti modi. Certamente, pare riflettere un pensiero retrostante sulla maggiore utilità, in termini lavorativi, di conoscere ed essere conosciuti dagli operatori del settore che non dai destinatari finali della nostra professione.
Perché questo?
Forse perché si ritiene che gli invii siano più frequenti da chi opera nel campo o in discipline affini e, d’altronde, ciò permetterebbe un “passa parola” più referenziato di quanto non possa avvenire attraverso la pubblicità su internet o altri mezzi di comunicazione.
O, magari, questo avviene per una certa ritrosia ad esporsi pubblicamente.
Dalla riflessione svolta negli incontri promossi in regione, un’interpretazione di questo dato proposta dai colleghi sembra legata a quanto già notato sopra, cioè ad uno scollamento fra l’ideale e il reale, fra ciò che si vorrebbe e la disponibilità ad attivarsi perché accada.
In qualche modo, secondo alcuni fra noi, tale dato parrebbe riflettere una tendenza passiva fra molti psicologi che potrebbero ritenere più utile conoscere i professionisti nella speranza che essi facciano degli invii (cosa ormai piuttosto rara, soprattutto se trattasi di conoscenza superficiale e non data da collaborazioni e conoscenze di anni) piuttosto che attivarsi direttamente per farsi conoscere, in modo diretto o indiretto, dall’utenza finale. Insomma, sarebbe un’ulteriore conferma della tendenza un po’ passiva della nostra categoria che in molti casi sogna, pensa, ricerca soluzioni, ma fatica nel fare il passo successivo del passaggio concreto all’azione, scegliendo soluzioni più “comode” e meno impegnative in termini di tempo e attivazione in prima persona.
D’altra parte, un’altra interpretazione emersa, più ottimistica e in linea anche con il variegato panorama lavorativo attuale (che, lo ricordiamo, non si riduce solo alla clinica), porta a riflettere sul fatto che per fare progetti, consulenze più complesse e strutturate occorre lavorare in in équipe e con altre associazioni, enti e gruppi professionali che non siano già l’utente finale, ma un passo intermedio necessario per arrivare ad esso.

In conclusione…

Naturalmente, il lavoro svolto voleva avere lo scopo di dare spunti per una prima riflessione sia sui bisogni di noi psicologi sia sul nostro modo di porci rispetto ad essi. Da questo, può nascere anche uno stimolo alla realizzazione (anche con l’aiuto di tutti voi!) di attività che potrebbe essere importante creare sull’onda delle necessità emerse.
E’ un primo passo da cui ci piacerebbe scaturisse partecipazione, motivazione e spinta all’attivazione. Magari iniziando dai commenti a questo articolo unito a vostre proposte concrete.

 

Gabriele Raimondi e lo staff AP Emilia Romagna