image_pdfimage_print

Fin dall’inizio i “padri costituenti” della professione e della L.56/89 avevano ritenuto imprescindibile, oltre alla formazione accademica, anche un periodo di esperienza professionale guidata per poter poi esercitare la professione di psicologo; e, in effetti, pensare alla possibilità di esercitare un ruolo professionale delicato e complesso come questo senza prima aver effettuato un periodo di pratica “supervisionata” appare arrischiato e controintuitivo.

Il tirocinio, in tale intenzione, aveva quindi un duplice scopo: permettere al neolaureato di “sperimentare nella pratica” le nozioni teoriche e metodologiche apprese nel corso degli studi universitari, e – implicitamente – avviarsi ad un percorso di “socializzazione professionale”, ovvero di inserimento guidato nel “mondo della professione”, grazie alla “mentorship” dei suoi colleghi più esperti.

Un periodo formativo quindi cruciale, in cui lo “psicologo in potenza” si inizia a trasformare nello “psicologo in atto”, in relazione a quello che “sa fare”, a quello che “sa essere”, ed a come viene introdotto e integrato nella comunità professionale.

Il tirocinio deve essere vissuto con grande responsabilità: è l’anno più professionalizzante del nostro percorso formativo, l’anno in cui dobbiamo imparare a fare gli psicologi; di come lo svolgiamo, quindi, non saremo chiamati a rispondere eticamente e formativamente solo a noi stessi e alla struttura, ma anche… ai nostri futuri clienti, pazienti, utenti.

E in questo quadro complessivo, vi sono alcune luci e ombre.

Partiamo dal punto base: i Tirocini formano davvero ?

La risposta, sul piano di realtà, è: dipende. Dipende dalla struttura, dal tutor, dal progetto formativo… e non solo. Il tirocinio dovrebbe essere un’esperienza intensiva e arricchente, in cui il coinvolgimento graduale e progressivo nella sfera della psicologia praticata, e non solo di quella ‘pensata’ della formazione teorica, è il cuore della socializzazione professionale del giovane quasi-psicologo.

Purtroppo, capita spesso di sentire giovani quasi-psicologi (o specializzandi) lamentarsi del proprio tirocinio come di una cosa lunga, inutile, poco formativa. Le litanie sono ben conosciute, generiche, e spesso ripetitive: “mi hanno messo a fare fotocopie”, “non ho imparato niente”, “mi hanno sfruttato tantissimo, lì siamo tutti tirocinanti”.

Ma è sempre vero ? Ed è sempre e solo colpa della struttura ?

La socializzazione professionale, perché sia efficace, necessita di alcuni contenitori adeguati.

Uno di questi contenitori di tirocinio è l’Università.

Su questo, vi sono molti miti da sfatare: sia nel tirocinio interno che in quello esterno. Col tirocinio interno si sceglie di rimanere in Università per approfondire alcune tematiche, spesso di ricerca e in collegamento con il proprio docente di tesi. I regolamenti prevedono solitamente che si possa svolgere un solo semestre in Ateneo, proprio per obbligare il neolaureato anche a sperimentarsi fuori dal contenitore accademico.

La scelta di svolgere un tirocinio interno dovrebbe essere attentamente valutata: può essere un ottimo modo per approfondire e integrare competenze metodologiche, magari su un tema che ci interessa molto; ma al contempo è importante che l’esperienza venga svolta in modo da imparare qualcosa di nuovo e di diverso da quanto fatto durante il percorso universitario. E questo è dovere sia del tutor, che del tirocinante.

L’utilità del tirocinio interno dipende però sempre dalla serietà individuale del singolo tirocinante, e molto più di quanto abitualmente si voglia pensare: puntare ai gruppi di ricerca più attivi; usare proattivamente quei mesi per imparare nuove tecniche, metodologie, protocolli; approfondire con tutte le risorse dell’Università le aree di proprio interesse… di solito, chi si muove attivamente e responsabilmente in quest’ottica non ne rimane deluso.

In un altro senso, l’Università si pone “sulla soglia”: gestisce molti aspetti organizzativi e amministrativi del tirocinio anche esterno, e gestisce le convenzioni con gli Enti ospitanti. Un aspetto delicato, che viene spesso sottovalutato dal tirocinante.

E su questo, i tirocinanti fanno spesso due tragici errori.

In primo luogo, molti non si rendono conto della complessità delle operazioni coinvolte, e presentano documentazioni in ritardo, incomplete, errate. Questa è la prima prova di “piano di realtà professionale” nel quale è immerso il giovane tirocinante: creare problemi a sé e agli altri con Enti, assicurazioni, convenzioni è un pessimo modo per partire come “professionista”.

In secondo luogo, spesso tendono a colpevolizzare l’Università se una sede di tirocinio non è soddisfacente, deresponsabilizzandosi.

Ma il tirocinante si deve ricordare che è un adulto laureato, quasi professionista; deve rendersi conto che l’esperienza di tirocinio non è fatta per gratificarlo o validarlo narcisisticamente nel suo ruolo idealistico di “superpsicologo”: un tirocinio realmente formativo può essere frustrante, a tratti duro, spesso diverso da come ce lo si era “idealisticamente” immaginato; il lavoro impegnativo, gli utenti “difficili”, il tutor non rivelarsi quell’”angelo confortante” che ci si aspettava magicamente.

A chi fa comodo un tirocinio troppo comodo? A volte, al tirocinante per primo; che non deve così rischiare di “invalidare” la sua identità di “bravo studente”, non deve affaticarsi troppo nell’incontro/scontro con i propri limiti, non deve sforzarsi di pensare in maniera diversa da quanto scritto nei manuali o insegnato all’Università.

L’obbiettivo del tirocinio è imparare tanto, e molto diversamente che dallo studio universitario; un obbiettivo ambizioso, che deve essere sostenuto da una forte motivazione e da un forte “desiderio” di imparare, da parte del tirocinante per primo.

Che quindi, seppur senza scivolare nell’onnipotenza, non può e non deve “accontentarsi” di un “tirocinio comodo”, lui per primo. E, se invece lo fa perché è “comodo”, poi non se ne può più lamentare.