Chi aveva cantato vittoria sulla validazione “scientifica” delle procedure psicoterapeutiche, dovrà attendere probabilmente qualche centinaio di anni.
No, non si tratta della solita diatriba tra sperimentalisti e anti-sperimentalisti, o tra psicoterapeuti cognitivo-comportamentali e psicodinamici, no, troppo semplice, si tratta invece di una brusca retromarcia proprio in casa sperimentale.
Il “colpevole” si chiama Drew Westen, noto e accreditato ricercatore di Atlanta, portabandiera dell’empirismo in psicoterapia, primo autore del recente saggio “The empirical status of empirically supported psychotherapies: assumptions, findings, and reporting in controlled clinical trials”. Psychological Bulletin, 2004, 130: 631-663. 2004 by the American Psychological Association, tradotto in italiano in Psicoterapia e Scienze Umane, 1/2005 (Franco Angeli editore): “Lo statuto empirico delle psicoterapie validate empiricamente: assunti, risultati e pubblicazioni delle ricerche” Drew Westen, Kate Morrison, Heather Thompson-Brenner.
Non si tratta dunque del solito scettico o di un pericoloso rivoluzionario anti-sistema, tutt’altro. La critica proviene dall’interno, che più interno non si può.
Chi volesse trovare un’esauriente sintesi delle oltre 70 (!) pagine di questo saggio può consultare l’articolo a cura di Paolo Migone, direttore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.
Il nostro Drew Westen, dunque, rimette radicalmente in discussione tutta una serie di certezze su cui si è fin qui fondata la ricerca americana in psicoterapia e le due siglette magiche che davano una certa baldanza e sicurezza, RCT (Randomized Clinical Trials, studi clinici controllati randomizzati) e EST (Empirically Supported Treatments, trattamenti supportati empiricamente o “evidence-based”), pare che, secondo l’autore, non possano più raccontare alcuna storia mitica sulla verità dell’efficacia in psicoterapia.
Questa storia va ineluttabilmente riscritta. Solo che non si sa ancora bene come.
Le linee-guida fin qui utilizzate dalla ricerca, secondo quanto dimostra Westen, si sono fondate essenzialmente su assunti falsi o quantomeno artefatti:
“Tali assunti – che la psicopatologia è altamente malleabile, che la maggior parte dei pazienti può venire trattata per un unico problema o disturbo, che i fattori di personalità sono irrilevanti o di secondaria importanza nel trattamento dei disturbi psichiatrici, e che un’esatta applicazione degli stessi metodi sperimentali usati in altre aree della psicologia e nella ricerca in psicofarmacologia costituisce il principale se non l’unico criterio per identificare strategie di interventi terapeuticamente utili – risultano validi solo se applicati in una certa misura a certi tipi di trattamenti per alcuni tipi di disturbo e con le precisazioni del caso, anche perché la loro applicazione indiscriminata può condurre ad errori di valutazione determinanti”.
E più avanti:
“Siamo ben lontani dal sapere in che misura le conclusioni qui proposte, anche quelle più caute, siano generalizzabili alla popolazione dei pazienti trattati nella comunità, e questo in ragione degli elevati, e altamente variabili, tassi e criteri di esclusione che rendono difficile aggregare ed applicare alla popolazione di coloro che chiedono un trattamento terapeutico i risultati provenienti
dagli RCT”.
Traduco in un linguaggio più accessibile: campioni sperimentali sostanzialmente fittizi; esclusione irrealistica dei disturbi di personalità dai campioni; protocolli terapeutici manualizzati applicati come a topini bianchi; durate illogicamente brevi degli interventi; follow-up non sufficientemente prolungati nel tempo; criteri medici trasferiti meccanicamente in ambito psicologico; e mille altre eccezioni e sfumature sollevate dal nostro eroe a smontare, pezzo a pezzo, un approccio sperimentale alla psicoterapia del tutto inaccettabile e assolutamente non esportabile ad una popolazione umana reale!
Insomma, sembrerebbe proprio che i criteri che (forse) si attagliano alla ricerca medica, ahimè, male si adattano alla psicoterapia. Ma guarda un po’, che sorpresa!
Ma, attenzione, Drew Westen è tutt’altro che contrario all’empirismo nella ricerca in psicoterapia, considerato importantissimo per la crescita delle pratiche cliniche, ed egli tenta – non saprei prevedere con quali risultati – nella seconda parte del suo lavoro, di trovare una sintesi tra metodi statistici e metodi naturalistici, una correlazione tra risultati codificati RCT e risultati “comuni”.
Noi sappiamo però come, specie in ambiente americano, siano le compagnie di assicurazione (quelle che rimborsano solo le terapie comprovate come “efficaci”) e le compagnie farmaceutiche le realtà sociali ed economiche che informano, orientano e promuovono questo inverosimile tipo di ricerche. Ad esse, com’è noto (e detto senza scandalo o moralismo), interessa molto più far quadrare i conti piuttosto che accrescere il benessere sociale, o soltanto dei propri clienti. Le statistiche sono utili per prevedere le fluttuazioni e gli andamenti dei consumi e dei mercati, ed è dunque l’uomo consumatore l’unico possibile target di questo approccio.
Non l’uomo!
Il moto di ribellione di Westen a questo punto assume, a mio parere, la forma di un appello a tutta la categoria di ricercatori e clinici in psicoterapia affinché si svincolino da queste strettoie che, culturalmente, limitano e mortificano la ricerca trasformandola in una sorta di girandola di artifici statistici (atta a vendere prodotti a clientele piuttosto che a dimostrare l’efficienza delle buone pratiche), e si auto-determinino definendo autonomamente i criteri di validazione della ricerca stessa “capovolgendo la relazione tra disegni sperimentali di efficacia (efficacy) e di efficienza (effectiveness) come
è attualmente concepita”.
Un altro punto sensibile è che a volte – compagnie a parte – sono proprio gli Stati nazionali, o loro sottoprodotti (enti, ministeri, centri di ricerca accreditati, etc..) che, in assenza di giudizio e competenza, finiscono per mutuare ed assumere come sensate le posizioni scientifico-culturali dell’evidence-based come le uniche voci autorevoli sulla validità delle pratiche psicoterapeutiche. E qui la frittata è presto pronta in tavola!
In Francia, ad esempio, pare sia in corso una annosa vertenza nazionale tra psicoterapeuti e ministero delle salute proprio su questo genere di questioni, a partire dal fatto che le uniche psicoterapie “validate evidence-based” (e dunque “passabili dalla mutua”) sono quello comportamentali-cognitive manualizzate ed effettuate in 6-16 sedute. Tutte le altre non rientrano nei criteri previsti (me lo diceva il babbo di andare a lavorare con lui…!).
Si apre, a questo punto, la futura e prossima vicenda dell’accreditamento delle psicoterapie anche qui da noi in Italia. Secondo quali criteri il ministero della salute distinguerà (semmai lo farà mai) tra le psicoterapie quelle efficaci-efficienti e quelle non, essendo ormai crollato il bel castelletto dell’evidence-based?
Furbi e lobbies di ogni genere si organizzeranno senz’altro nel dimostrare l’indimostrabile o viceversa nel lasciare, in perfetto stile italiano, tutto assolutamente amorfo ed indefinito, ma di ricerca in psicologia e psicoterapia (not evidence-based) da noi non se ne parla nemmeno sotto tortura