La riforma delle pensioni e l’impatto sui lavoratori nell'era postmoderna
L’impatto della riforma delle pensioni è stato lo spunto per questo bel libro di Capelli. Il libro, a dispetto del titolo, prende spunto dalla situazione dei nati nel ’52, cioè dal fatto che chi è nato nel ’52 si è visto modificare le proprie prospettive pensionistiche in seguito alla riforma “Fornero” che stabilisce un tempo più lungo di lavoro, e affronta con lucidità e realismo, forse anche un po’ di cinismo, le condizioni lavorative e il loro impatto sui lavoratori.
Naturalmente il libro ha un taglio squisitamente psicologico, nel leggerlo vi accorgerete che sono presenti teorie e costrutti psicologici, ma questi sono declinati nella realtà dell’esperienza dell’Autore. È proprio in queste riflessioni calate nella realtà del lavoro che possiamo ritrovarci sia come professionisti sia come lavoratori. Infatti, non è un libro astratto o teorico ma credo che ogni psicologo del lavoro possa individuare delle riflessioni che almeno una volta ha fatto durante la propria esperienza lavorativa. Dal mio punto di vista l’approccio del libro al mondo del lavoro, che definirei “realistico”, mette in evidenza la discrepanza tra le prassi, le policy, i motti e slogan aziendali e la realtà del vissuto dei lavoratori e delle leggi di mercato.
Vorrei soffermarmi su due aspetti che considero come i più interessanti perché proprio figli della nostra epoca post-moderna: la concezione del lavoro e il rapporto tra lavoro e azienda.
Il libro riporta la critica del considerare il lavoro come merce. Forse è proprio questo l’errore più grossolano della nostra epoca, l’idea economistica del trattare il lavoro come una merce qualsiasi, infatti parliamo di “mercato del lavoro” proprio come se fosse qualcosa che ha un suo valore economico e che può essere scambiato.
Karl Polanyi nel 1944 nel suo libro sulle trasformazioni politiche ed economiche ci aveva già messo in guardia rispetto a questo fraintendimento. Infatti, proclamò che trattare il lavoro come merce era una finzione, poiché il lavoro non può essere una merce uguale a tutte le altre perché è impossibile venderlo o comprarlo separatamente da chi lo esplica. Il lavoro è così “impersonificato”: quando parliamo di lavoro parliamo di persone, individui, di esseri umani, non parliamo solo di “lavoro”. Così il lavoro non può essere mosso o trasferito senza muovere o trasferire le persone così come non si può far finta di niente sulle conseguenze che può avere una qualsiasi riforma del lavoro che non solo conseguenze sul “lavoro” ma sono conseguenze sulle persone, sulla vita delle persone. Forse questo è l’errore più grande dell’approccio “bocconiano” al lavoro.
La seconda questione riportata nel libro che reputo molto interessante è il rapporto dei lavoratori con l’azienda. Infatti, se da una parte le aziende cercano di lavorare sulla motivazione, sul coinvolgimento dei lavoratori, trasmettendo dei valori importanti di affiliazione e attenzione ai lavoratori, dall’altra la nostra epoca smentisce quotidianamente questi sforzi. Qui nasce la contraddizione più grande, che i lavoratori percepiscono e che li porta ad un approccio disilluso al proprio lavoro, creando molte difficoltà negli interventi dello psicologo del lavoro.
Se in passato il capitale era stabile, incollato alla realtà di un determinato ambiente e ancorava i lavoratori a se stesso, oggi il capitale è libero, fluttuante, rapido e non ha più necessità di identificarsi in un luogo preciso ma passa, da fusioni in acquisizioni, da una parte all’altra del globo per avere rapporti rapidi e redditizi senza preoccuparsi di costruire qualcosa di stabile e duraturo.
Questo priva i lavoratori del loro potere contrattuale, legandogli sempre più le mani. La vicenda IKEA (anche se erano delle coop che lavoravano per IKEA) degli ultimi giorni ci conferma questa nuova modalità. I lavoratori hanno protestato per le proprie condizioni di lavoro nelle cooperative, hanno protestato con IKEA e questa ha spostato il lavoro da Piacenza in altre sedi, facendo perdere il lavoro a molte persone. In quest’epoca di “capitalismo leggero”, quindi, il lavoratore ha ben presente quanto i tentativi di coinvolgerlo, motivarlo e legarlo al proprio lavoro siano dei tentativi futili, forse anche ipocriti, che cercano di salvare la faccia di fronte ad un approccio al lavoro che ha molto di finanziario e poco di umano.