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Siamo tutti un po’ psicologi. L’argomentazione è inoppugnabile visto che lo psicologo ha il suo specifico nelle relazioni umane. Tutti siamo di fatto in relazione, anzi, volendo tutti ci possiamo considerare esperti in relazioni in un universo mondo in cui l’assioma principale è che “non si può non comunicare”. 

E passi per chi ha la “sindrome del marinaio di lungo corso”, per chi, quindi, in virtù di esperienze difficili o di molteplici amori e dolori si porta dietro la sensazione di averne vissuta talmente tanta, di vita, di averne che ne cresce, da insegnare agli altri. Ci sono anche quelli, ancora più pericolosi, cui fin da piccoli tutti raccontavano tutto; quelli che sono sempre stati cercati per la dote del buon consiglio e della capacità di  ascolto innata. Già Charmet individuava negli adolescenti centrati su questo funzionamento un substrato depressivo. Ma chissà, forse, leggendo la postfazione di “una storia” di Alessandro Baricco si potrebbe essere d’accordo nell’avere simpatia per lo psicanalista depresso come figura “bella”, che, forse avendo sperimentata la sofferenza sulla propria pelle tratta con rispetto e comprensione chi ne soffre. Terapia centrata sul cliente, Rogers docet? 

Comunque: non ci salva nemmeno dare nomi di patologia -sei un depresso!- a chi cerca di imitarci, perché poi la patologia rischiamo di trovarcela appiccicata addosso.

E d’altronde non si può nemmeno simulare indifferenza. Counsellors, pedagogisti clinici, mediatori familiari, penali, civili e meno civili, tutti bussano alla porta della psicologia. Vogliono entrare e ci riusciranno, complice la giusta volontà di abbattere i privilegi della caste professionali in Italia come in Europa. Sacrosanto.

E non è certo la torta dei nostri pochi denari che vogliono spartirsi.

Vogliono l’incredulità della gente. Di chi avendoci conosciuti in altri contesti, in cui, a Dio piacendo, siamo anche risultati gente simpatica e alla mano, pone la fatidica domanda: cheffai?

Al termine di una vacanza di una settimana mi è capitato personalmente: sono stato avvicinato da un conoscente che mi ha riproposto per la seconda volta la domanda, cui avevo già risposto. “No, ma davvero, cheffai?” C’è il rischio di irritarsi. Vorresti raccontare tutto, a quel punto: gli anni di volontariato e poi il lavoro a 15,50 € all’ora, i libri letti e i contributi scritti. Vorresti dire che si, sono uno psicologo anche se non mi porto dietro la chaise longue e anche se non ho interpretato tutti i tuoi sospiri; se è per quello, anz,i sono passato anche sopra qualche lapsus gustoso e un paio di doppi sensi che sarebbero stati suggestivi.   

Me ne sono stato lì buono buono e ora, caro conoscente di una vacanza passata fianco a fianco, non ci credi che faccio, anzi – mi perdonino Erba (“Diventare Terapeuti”, gran bel testo) e Bonomo (“Rimanere Terapeuti”, gran bel testo) – sono uno psicologo.

Non ci credono. Già perché lo psicologo, categoria di pensatori squattrinati, è però una categoria circonfusa in un alone di – penso poco giustificato – mito. Spesso siamo talmente impegnati a scrivere la tesi di specialità o a frequentare gli studi dei colleghi per l’analisi personale e la supervisione da dimenticarci l’arte, la politica, la geografia, eppure: lo psicologo è una figura riconosciuta. D’altronde, la gente sembra chiedersi, come si fa a guarire con le parole? Il potere del setting e della neutralità sono confusi e sostituiti, nell’immaginario collettivo, all’idea di una potenza salvifica che non può nascere che da una personalità magnetica di chi Insegna la Vita al povero paziente sofferente. Guru. Conoscitori, magari timidi ma segretamente certi della distanza tra bene e male. Impossibile vedere lo psicologo in costume, in bici, in discoteca. Lo psicologo sta meditando sul senso dell’esistenza per insegnare la saggezza ai suoi pazienti.

Vorrei vedere chi si impegna a sfatare una così bella e generosa idealizzazione da parte dell’Altro. Chissà che questa incomprensione non c’entri con la sensazione di non sentirsi mai pronti ad esercitare il mestiere dell’ascolto, il che permette di arricchire scuole non sempre all’altezza delle aspettative.

Ma lo psicologo lo sa, l’idealizzazione fa il paio con la svalutazione. Riporto un racconto, un po’ paradossale ma sempre possibile, in tema di sconfinamenti professionali:

“L’altro giorno sono andato dal mio verduraio, con cui mi sono messo a conversare mentre acquistavo un chilo di zucchine e un pò di cavoletti di Bruxelles. Tra un cavoletto e un pomidoro quest’uomo mi ha messo sempre più a mio agio. Fatto sta che ho cominciato a raccontargli di tutta la mia vita, e pensavo: “mamma che bravo questo, dovrebbe fare lo psicologo…”. E pensate che non passavano pochi secondi da quel pensiero che proprio lui mi diceva: “vede dottò, me lo dicono tutti, che sono anch’io un pò spicologo, pisicologo, come si dice, insomma, come lei…”.

Ecco, in fondo siamo tutti un pò psicologi, ho pensato, perchè dobbiamo lavorare solo noi, essere egoisti pensando che la nostra sia una disciplina seria quando c’è in giro così tanta gente sensibile….

Allora, per farla breve, gli ho detto: amico, se sei stanco di vendere carciofi, e invece di somministrare vitamine alla gente volessi erogare perle di saggezza, io conosco gente altolocata presso l’Ordine Psicologi Lombardia che, forse, vista la tua sensibilità, potrebbe riaprire le liste di certe sanatorie e fare entrare anche te!

Che brava persona, amici! E com’era entusiasta all’idea! Mi ha perfino regalato i cavolini di bruxelles, non ci pensava nemmeno più ai soldi, anche se secondo me alla fine ha caricato un pò sulle zucchine…. vabbè….

E’ chiaro che, ancora prima dell’abolizione degli Ordini Professionali, il problema dell’identità professionale esiste. Del resto, dopo che nel 1983 Woody Allen crea la meravigliosa figura di Zelig, il camaleonte sociale che si trasforma transitando nelle più svariate professioni, nulla più di sensato può esser aggiunto a questo capolavoro il cui titolo originale, guarda un po’, era: Identity Crisis and Its Relationship to Personality Disorder.

E neppure siamo protetti, come i chirurghi e gli idraulici, da un “saper fare”, da una competenza sul piano del reale che avrà sempre la capacità esoterica di tenere dentro alcuni e fuori altri. Qui si può citare un altro capolavoro del cinema, il bellissimo “non ci resta che piangere” di Benigni e Troisi (1984): che farebbe uno psicologo nel rinascimento, epoca del savoir faire?

Il più grave errore sarebbe relegare la questione dell’identità dello psicologo all’università frequentata e paragonare questa bontà a quella delle varie scuole pubbliche e private e, perché no, alla scuola della vita, della sofferenza. Più che al modo di parlare, di agire, di sentire. Alla cultura e alle abitudini mentali dello psicologo.

E’ incontrando l’Altro sociale che a volte si sente un brivido, si coglie il senso sottile di una differenza. A me che lavoro con i docenti delle scuole superiori appare a volte in maniera eclatante. Ho cose da dire e differenze da sottolineare che a volte mi sembra rendano sensata – e anzi doverosa –  la presenza di uno psicologo, di un vero psicologo, in ogni scuola. Senza che questo – ovviamente – tuteli dalla possibilità di incontrare un cattivo psicologo, figura sempre negativa e da non confondere con lo psicologo cattivo, che potrebbe anche essere un buon terapeuta. Divagazioni. 

Con i pazienti, poi. Lì a volte funziona quasi magicamente un dispositivo artificioso ma straordinariamente efficace, il setting. Dai più è stato sottolineato come, al di là degli orari e dello spazio, la componente umana, la figura dello psicologo, sia parte integrante della faccenda e piuttosto importante, oltretutto. Non sarebbe la stessa cosa uno studio vuoto, anche se il paragone lo si fa con uno studio popolato da uno psicoanalista ortodosso che si siede dietro il lettino, muto e frustrante come nessuno.

Basta, questo, a difenderci dall’aggressione di professioni limitrofe che mancano di tempi e luoghi culturali per coltivare bene la loro identità? La torta del mercato della psiche è ormai microscopica e riservata, si spera, ai migliori o forse, si spera di no, ai più fortunati o ai più anziani e scaltri tra i colleghi. Tutta questione di Locus of Control, per chi ci crede.

L’eventuale, probabile, abolizione degli Ordini professionali darà il colpo di grazia alla professione psicologica, già assediata dai trabucchi del counsellors e dagli arieti dei pedagogisti? Non ne sono convinto. Di certo sono persuaso di una cosa: sarebbe un peccato per le moderne scienze umane.

Anche se ci impegniamo per distruggere quanto abbiamo di buono – c’è perfino chi dice che qualcuno abbia scritto cose migliori di Freud, se mi si consente una battuta – rimane sempre qualcosa di necessario, e forse anche sufficiente, nell’identità dello psicologo che si muove per le strade dei paesi e delle metropoli di oggi.