Caso Foti: assoluzione senza soluzione

L’assoluzione in appello di Claudio Foti può far piacere sul piano personale, ma non risolve la questione più generale della valutazione dei minori.

Sulle valutazioni dei minori da parte dei servizi e dei consulenti tecnici si fondano decisioni che hanno un impatto enorme sulla vita delle persone.
Spesso sono valutazioni effettuate bene, all’interno di circuiti controllati, di processi decisionali adeguatamente frazionati fra più attori indipendenti, fra più professionalità, con osservazioni protratte nel tempo.

Tutti fattori che in qualche modo garantiscono, alla fine, decisioni che rappresentano il miglior compromesso possibile per il minore di età e la sua famiglia.

Ma non è sempre così.

Il problema emerso nella vicenda giudiziaria che ha coinvolto Foti riguarda, anche, la qualità delle valutazioni e delle conseguenti decisioni.

Esiste il rischio concreto che valutazioni e decisioni, in alcune zone geografiche d’Italia e in alcuni periodi storici, siano state connotate da una visione fortemente ideologica.
Ad esempio sull’idea di traumatismi psichici diffusi nella popolazione e sistematicamente misconosciuti, spesso di carattere sessuale e spesso agiti nelle famiglie.
Oppure sulla questione dell’alienazione parentale messa al centro della scena come costrutto chiave.

Ma la lista dei bias, dei pregiudizi e delle ideologie nel campo dei minori di età e delle famiglie è pressoché infinita.

Sappiamo, da clinici e da epistemologi (per chi ha approfondito questa disciplina) che quando valuti la realtà guidato da un’idea molto forte, e ti circondi di persone che hanno la tua stessa idea, di adepti e sodali più che di colleghi con cui confrontarti, rischi di confondere la tua visione del mondo con il mondo stesso.

La vicenda che ha coinvolto Foti ci pone il problema più ampio di un certo modo di fare psicologia, caratterizzato da correnti teoriche fortemente connotate, sorrette da una logica iniziatica in cui dei maestri tramandano un pensiero a degli adepti che hanno la missione di conservarlo.

E lo si vede pure in una certa parte del movimento ‘in difesa di Foti’, che non mette in discussione nulla, che difende strenuamente se stesso e questa ‘psicoterapia del trauma’.
È un movimento che pubblica senza alcun riguardo CTP e commenti clinici con nomi e cognomi di minori di età, vivisezionati di fronte al pubblico con il solo scopo di difendere il proprio maestro o sodale.

E in alcune prese di posizione traspare l’atteggiamento da missionari della protezione dei bambini, che rappresenta spesso il puntello moralistico con cui certi operatori giustificano l’approssimazione dei mezzi di valutazione che usano.

Quando i cittadini e la scienza passano in secondo piano di fronte alla difesa del proprio pensiero, e quando si ritiene di agire in forza di una propria superiore moralità che ci colloca al rango di ‘difensori dei bimbi’ senza macchia e senza paura, qualcosa non va.

Tutto questo è molto lontano da una scienza laica e paritaria, priva di affezione verso le proprie scoperte, disponibile a modificarle, a metterle in discussione, a sostituirle, a confrontarle con la comunità professionale intera.

Il processo a Claudio Foti, qualunque ne sia l’esito (l’impalco accusatorio mi è sembrato insostenibile fin dall’inizio) è comunque l’indicatore di una fragilità nei nostri sistemi di valutazione e della presenza di sacche ideologiche.

Si è trattato di un processo alla persona, che però ha travolto anche i metodi della valutazione e l’antropologia degli operatori.
La rilevanza per noi professionisti non è tanto sulla vicenda penale, quanto sulla consistenza clinica ed epistemologica dei metodi.

Foti ha ragione: il suo lavoro, la sua vicenda professionale, sono stati strumentalizzati della politica in modo becero.
Però forse ci dovremmo interrogare, a partire da questa e altre vicende, sul motivo per cui i nostri metodi e i nostri risultati possono essere così esposti, così controversi.

E creare così tanto disagio proprio nei destinatari dei nostri interventi, che sono cittadini fruitori di servizi che devono essere coinvolti in progetti di sostegno e non sudditi su cui esercitare un potere coercitivo.

L’assoluzione sul piano penale di Claudio Foti è un bene per lui, e dispiace per le accuse infondate che gli hanno rovinato la vita, per la gogna mediatica che spesso viene riservata ai cittadini coinvolti in processi prima ancora di accertare la verità.
Ma da un punto di vista di sistema non ci risolve nulla.

Anzi, rischia di assolvere per generalizzazione un intero sistema disfunzionale.
Il processo a Foti, il caso Bibbiano, l’inchiesta Veleno, alcune posizioni della Corte di cassazione, ci devono far riflettere: c’è molto da migliorare nel modo di valutare i minori di età in situazioni di grave difficoltà.

Abbiamo ancora prassi troppo variegate, a volte perfino estemporanee, poco strutturate, troppo difformi da professionista a professionista, o connotate in senso ideologico, troppo schierate in tribù teoriche.

Ci dobbiamo interrogare, e trovare quanto prima delle soluzioni, perché abbiamo una responsabilità sociale come comunità professionale.
In un articolo di due anni fa, per questo problema suggerivo una Consensus Conference.

Resto dello stesso parere: occorre mettersi al tavolo, vedere ciò che funziona e non funziona, selezionare le prassi che raggiungono un ampio consenso della comunità scientifica e professionale e scartare il resto.

Ci serve sviluppare una tecnologia di valutazione più strutturata, omogenea e scientificamente fondata.
Gioire per l’assoluzione di Claudio Foti, pensando che sia un’assoluzione alle nostre carenze, è da irresponsabili.