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L’antefatto.
Tutto nasce dal mancato inserimento della stepchild adoption (l’adozione del figlio del coniuge) nella legge sulle unioni civili (legge Cirinnà del 2016). Un’omissione che costringe la maggior parte delle coppie omogenitoriali a percorrere la via dell’adozione in casi speciali (ex art. 44 lett. d) L. 184/83), e i Tribunali a esprimersi caso per caso, famiglia per famiglia, previa una lunga indagine che coinvolge anche le equipe adozioni dei servizi territoriali.
Si tratta di una situazione che mette in luce un vuoto legislativo.
Alcuni sindaci, tra cui quello di Padova, hanno quindi deciso di registrare gli atti di nascita di bambini e bambine nate in Italia da coppie omogenitoriali inserendo i nomi di entrambi i membri della coppia.
Questo fino allo stop imposto dalla circolare del gennaio 2023, in cui il Ministero dell’Interno chiede ai Sindaci di interrompere le iscrizioni anagrafiche delle figlie e dei figli nati da coppie omogenitoriali.

In questi giorni la disputa legale che vede contrapposti il Ministero dell’Interno e diverse decine di coppie omogenitoriali e rispettivi figli e figlie, residenti a Padova, trova come attore aggiunto il Tribunale che respinge il ricorso della Procura che, con una azione netta, aveva deciso di impugnare e annullare retroattivamente tutti gli atti di nascita dal 2017.

Queste dispute si fondano però su basi ideologiche e non sul reale benessere dell’infanzia. Si sa infatti che l’assenza di alcuni diritti non può che essere foriero di minor benessere.

Alcuni Ordini e diverse Associazioni che professionalmente si occupano della salute, si sono già da decenni espressi ampiamente in merito al benessere delle persone nate in famiglie omogenitoriali, producendo un corpus coerente di policy statement che può essere così riassunto: non vi sono rischi evolutivi per le bambine e i bambini che nascono nelle famiglie omogenitoriali, poiché le funzioni genitoriali sono autonome rispetto all’orientamento dei genitori.

Rischi evolutivi esistono nelle famiglie omogenitoriali, ma non vanno ricercati nella qualità delle relazioni che si instaurano all’interno della famiglia, bensì nel contesto storico-politico-sociale nel quale questa famiglia è collocata: un sociale che, in prima battuta, si interroga e sottopone a una persistente curiosità una realtà che reputa (oggi decisamente meno di ieri) strana.
Il problema inizia quando interrogativi e desiderio di conoscenza vengono intercettati e capitalizzati dalle cosiddette culture wars, che si giocano su un piano psico-sociale: nelle guerre culturali, ogni aspetto della vita quotidiana (dal modo in cui si viaggia al modo in cui si parla) diviene oggetto di giudizio morale, con l’esito piuttosto scontato di esacerbare ogni dibattito e radicalizzare i comportamenti.

Nello scenario che si è venuto a delineare, parlare di minority stress sembra insufficiente di fronte all’impatto psicologico che il clima di insicurezza e strumentalizzazione può avere nei confronti delle famiglie delle bambine e dei bambini.
L’assenza di riconoscimento giuridico può seriamente mettere a rischio la salute psicosociale delle persone.

La ricerca sulle competenze genitoriali delle famiglie same sex ha messo in luce come – in aggiunta alle classiche funzioni di ogni genitore – ve ne siano di specifiche, direttamente rivolte all’integrazione del nucleo nel contesto e alla preservazione dei legami con il genitore non biologico; una forma di resilienza che nasce dalla necessità di adattarsi a un clima sociale in parte ostile.
Si tratta di percorsi di trasparenza sociale che vengono intrapresi in ogni contesto di vita, in assenza di una legittimazione giuridica, per garantire alle bambine e ai bambini di vivere una quotidianità fondata sull’orgoglio e nella limpidezza, mai sulla vergogna.

Le famiglie omogenitoriali documentano già in ogni modo la relazione tra prole e genitore non legato biologicamente, per assicurare una solida rete di salvataggio in caso di difficoltà: adozioni ex art. 44, designazione come tutore/tutrice, deleghe scolastiche e per le visite sanitarie… tutti espedienti con i quali ovviare all’assenza di diritti, che però implicitamente ribadiscono una profonda differenza; il riconoscimento dei diritti si trasforma così in un continuo impegno sociale, spesso anche in una faticosa lotta politica.

Le famiglie omogenitoriali sono già visibili nei contesti di socializzazione come scuola, associazioni sportive, feste di compleanno: e proprio lì i genitori danno risposte, spiegazioni, rispondono alle curiosità, si premuniscono di organizzare corsi di formazione per promuovere una cultura inclusiva per le loro creature, e per quelle che devono ancora nascere. In autonomia, e con fatica, conquistano una legittimazione sociale che sembra invece voler essere negata o confinata nella privatizzazione.

Come psicolog3 manteniamo la nostra consueta disponibilità a sostenere le famiglie e le bambine e bambini che stanno loro malgrado subendo l’impatto psicologico di un contesto ostile, ma non riteniamo che il lavoro psicologico sulla singola persona sia la soluzione.
Se la sofferenza psicologica deriva dal contesto, è sul contesto che occorre agire, prima di tutto a livello istituzionale, portando nelle opportune sedi le evidenze delle nostre pluriennali ricerche scientifiche, chiedendo che ogni discussione nel merito ci coinvolga come persone esperte di legami familiari, benessere psicologico, adattamento sociale ecc. Non possiamo lasciare che le decisioni che coinvolgono l’infanzia subiscano derive ideologiche, per poi trovarci – nei nostri studi – a raccoglierne i pezzi.

La psicologia ha avuto una responsabilità storica nella patologizzazione delle persone queer, e un riscatto nella loro depatologizzazione; non lo ha fatto in un contesto sociale accogliente, anzi è da allora che l’impegno professionale è costante nel dialogare con istituzioni, sfera pubblica, chiunque voglia conoscere e approfondire le ragioni di una tale svolta.
Abbiamo il dovere deontologico di essere consulenti e fare divulgazione sul tema, con la preparazione e la distanza dalle guerre culturali che ci caratterizzano, assumendoci la responsabilità sociale della nostra professione.
Quello che possiamo affermare a gran voce, e con solide basi scientifiche, è che non può esserci benessere psicologico senza riconoscimento dei diritti.

 

Alberta Xodo e Armando Toscano
con la collaborazione del GDL Psicologia dell’inclusione LGBT+ di AltraPsicologia