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Certo, è vero che il percorso di realizzazione delle Case di Comunità è complesso e in alcuni casi accidentato; ma sicuramente si può dire che abbia provocato cambiamenti importanti, spostando alcuni assi della concezione del modo in cui le professioni dovrebbero stare in contatto con la cittadinanza e in comunicazione tra di loro.

Infermieri, assistenti sociali, psicologi e anche medici si sono messi in discussione per reinterpretare il loro esserci nel territorio, all’insegna di quel “[…] nuovo modello organizzativo della rete di assistenza sanitaria territoriale”; lo stanno facendo sicuramente in modo disomogeneo a livello italiano, con picchi di efficienza e baratri di mala prassi, ma comunque non si può dire, facendo zoom out dal territorio-Italia, che non vi sia un pullulare di mappature, iniziative di sensibilizzazione, sportelli a bassa soglia, lavoro di rete.

Come psicologhe e psicologi non possiamo non tornare a interrogarci, dunque, su quali siano i confini oggi che definiscono lo specifico della professione psicologica. La salute mentale, sì, questo è il nucleo: ma la salute psicologica e la salute in generale rientrano tra i cosiddetti oggetti di confine, ossia quegli oggetti che la sociologia considera come connettori di mondi professionali e sociali diversi. Quindi, oltre che lo specifico tecnico degli oggetti di lavoro, va pensato anche lo specifico del modo in cui gli psicologi entrano in collaborazione con le altre professioni.

In questo senso è da sempre un crinale sensibile la collaborazione tra psicologi e medici. Sappiamo – ce lo insegna la psicologia sociale – che le differenze di status sono ineliminabili; e sappiamo anche che la professione medica, come quella giuridica, godono di uno status elevato sancito quasi più antropologicamente che sociologicamente; ma questo non significa che non si debba lavorare a una loro riduzione e rinegoziazione, che andrebbe tutta a beneficio del cittadino. Finché la psicologia si trascinerà dietro il retaggio della sua genealogia e si qualificherà come psichiatria minor, probabilmente assisteremo a un dibattito sulla salute mentale schiacciato sulla clinica e sulla terapia, con poco spazio invece a quella psicologia che esiste e lavora ogni giorno negli ambiti della promozione della salute, della salute comunitaria, delle determinanti sociali, della tutela dei diritti umani, delle frontiere tra psiche e corpo. In tal senso, esistono campi – si pensi per esempio alla psicosomatica, o alla psiconcologia – in cui la storia di collaborazione ha portato oggi a una buona convivenza, ma anche a uno scambio disciplinare a due direzioni: tanto che gli stessi assunti cartesiani delle scissioni tra mente e corpo, in tali ambiti, sono stati spesso superati.

La professione psicologica si è conformata in Italia alla medicina, di cui ha assunto il modello di professionalizzazione (le scuole di specializzazione e i tirocini) senza assumerne i privilegi (la borsa di studio). Per molti che intraprendono questo meraviglioso cammino, la massima aspirazione è il camice bianco, il lavoro ospedaliero, il paziente; desiderio legittimo, che non deve però farci dimenticare che quello è un possibile setting, è un possibile modo di esercitare la professione psicologica, ma non è nemmeno lontanamente l’unico.

Durante la pandemia da CoViD-19, Jonathan Campion, psichiatra del gruppo di lavoro sulla Public Mental Health di OMS Europa, ha pubblicato sul Lancet una proposta di articolazione di tutta l’offerta possibile che, direttamente o indirettamente, ha effetti sulla salute mentale: nello schema proposto trovano spazio interventi di educazione all’emotività nelle scuole, sostegno alla genitorialità, prevenzione del decadimento cognitivo, ma anche programmi di aiuto umanitario e orientamento scolastico; la psicoterapia rientra nel livello secondario e terziario di intervento, come trattamento per i disturbi mentali.

Dunque la psicoterapia è uno dei possibili approdi del lavoro psicologico, tra molte opportunità che, se adeguatamente valorizzate, potrebbero tramutarsi in vere e proprie filiere territoriali della prevenzione e della cura, se non addirittura sistemi promotori di resilienza. Allora forse è lì che possiamo cominciare a ritrovare il senso del nostro lavoro, lo specifico del lavoro psicologico: nella capacità di allestire e governare setting in cui i singoli, i gruppi, le comunità trovano – non casualmente – condizioni esplicite e implicite che consentano loro di sperimentarsi diversi, di vivere un cambiamento.

Perdersi le enormi opportunità date dal cambiamento in corso significa andare contro gli interessi del cittadino, e di porre le competenze psicologiche al servizio e al centro delle collaborazioni: che non avvengono in natura, ma necessitano proprio di un setting allestito ad arte. In un passaggio storico che valorizza all’estremo i confini, potrebbe non essere così insensato che sia la psicologia a promuovere scambi e ibridazioni. Ed è proprio questa la vocazione principale della rivoluzione territoriale contenuta nel DM 77.