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La distruzione dell’articolo 21 del Codice Deontologico e la fine della psicologia

L’articolo 21 è da sempre un caposaldo.
Non si tratta semplicemente di ciò che sembra, cioè un articolo che prescrive agli psicologi di non insegnare strumenti e tecniche proprie della professione psicologica ai non psicologi.

E’ molto di più.

Quell’articolo 21 sancisce e protegge la cosiddetta “riserva di legge”, ovvero quel “quid” che può fare solo lo psicologo, e che solo a lui può essere insegnato nell’ambito di una formazione stabilita dallo Stato.

Si tratta di una questione ontologica: esiste lo psicologo come professionista – o no?
E questo stabilisce un limite alle iniziative a scopo di lucro in cui si possono insegnare strumenti psicologici a chiunque, illudendo chi di fatto per legge non può, di potersi mettere a fare il “piccolo psicologo”, galleggiando abilmente ai limiti della legalità nella speranza di non trovarsi mai di fronte all’autorità giudiziaria.

L’attuale articolo 21 del codice deontologico risale al 2013, ed è frutto del lavoro di una commissione presieduta da chi oggi firma questo articolo.
Si può sostenere tranquillamente che la proposta di revisione del codice ci riporta indietro a prima di quel momento. Vediamo perché.

Versione attuale art. 21

Proposta di revisione CNOP 2023

L’insegnamento dell’uso di strumenti e tecniche conoscitive e di intervento riservati alla professione di psicologo a persone estranee alla professione stessa costituisce violazione deontologica grave.

La psicologa e lo psicologo anche attraverso l’insegnamento, in ogni ambito e ad ogni livello, promuovono conoscenze psicologiche, condividono e diffondono cultura psicologica. Tuttavia costituisce grave violazione deontologica l’insegnamento a persone estranee alla professione psicologica dell’uso di metodi, tecniche e di strumenti conoscitivi e di intervento propri della professione stessa.

Costituisce aggravante avallare con la propria opera professionale attività ingannevoli o abusive concorrendo all’attribuzione di qualifiche, attestati o inducendo a ritenersi autorizzati all’esercizio di attività caratteristiche dello psicologo.

Costituisce aggravante il caso in cui l’insegnamento dei metodi, delle tecniche e degli strumenti specifici della professione psicologica abbia come obiettivo quello di precostituire possibili esercizi abusivi della professione.

Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici.

Nella nuova proposta scompare la definizione.

È fatto salvo l’insegnamento di tali strumenti e tecniche agli studenti dei corsi di studio universitari in psicologia e ai tirocinanti. È altresì fatto salvo l’insegnamento di conoscenze psicologiche.

Nella nuova proposta scompare la clausola esimente per gli studenti. L’esimente per le sole conoscenze teoriche (garantita dalla Costituzione) è ripresa in premessa.

 

Balza all’occhio una differenza.
La nuova proposta non aggiunge, ma toglie, stralcia delle parti. E introduce un’aggravante solo per quelle scuole che decidono, chissà poi per quale esiziale ingenuità, di presentarsi come formatrici di abusivi.
E’ chiarissimo che così riscritta la norma non è più in grado di intercettare nulla.
Si dirà che ogni scarrafone è bello a mamma sua, e infatti io vorrei usare una sola parola per definire la nuova versione dell’articolo 21: uno scempio.

Il “21” della prima versione è basato soprattutto sugli elementi di giurisprudenza che si sono accumulati negli anni di difesa della professione. Giurisprudenza che chiaramente chi ha revisionato ritiene superflua, tanto da avere eliminato proprio quelle parole che provengono dalla sentenza Zonta, dalla Zerbetto, ovvero dalla sensibilità dei giudici nell’esprimersi su questo tema.

Mi domando quale sarà l’istituto di formazione che ci verrà a raccontare che il suo obiettivo è di “precostituire possibili esercizi abusivi della professione” ovvero che sta formando psicologi abusivi. Sarebbe come se un ladro di appartamenti, accingendosi al furto, mettesse fuori prima un cartello per scusarsi con i condomini del rumore, magari chiedendo l’uso del suolo pubblico per parcheggiare il furgone su cui caricare la refurtiva.

La realtà è diversa.

Gli psicologi che lucrano sulla svendita della professione sono certamente una minoranza, tuttavia, questo lo dico ai membri autorevoli del nostro Consiglio Nazionale, non sono necessariamente degli idioti.
Non è rara la prassi di affiancare a una scuola di psicoterapia una seconda istituzione, magari con un nome diverso ma con più o meno gli stessi docenti e un programma molto simile.

In Lombardia, su una sessantina di scuole di psicoterapia operative, quelle che lo fanno sono nove.
L’Ordine le conosce tutte.
E a proposito di Ordini, il senso profondo di ogni istituzione dovrebbe essere porre un limite al godimento individuale: un limite alla possibilità di lucrare, ad esempio, sulla svendita della nostra professione, danneggiando ogni singolo collega ed erodendo il senso stesso dell’abilitazione alla professione di psicologo.
Per farlo, il Codice deve essere pronto a una segnalazione che riguarda la realtà che conosciamo bene.

Ma c’è di più.

Lo dico per gli ottimisti membri del CNOP che pensano ci sarà chi dichiarerà su carta bollata l’intenzione di formare abusivi.
Al contrario, da diversi anni l’abusivismo viene coperto grazie all’utilizzo puramente nominalistico di definizioni varie, più o meno inventate a tavolino, copiate da paesi stranieri ed esercitate grazie a una formazione privata (a pagamento).
Le attività limitrofe a quelle dello psicologo, che ne imitano perfettamente i contorni e i contenuti sono diversissime. Per citarne alcune, nessuna delle quali ha passato l’esame dell’UNI per accedere all’elenco delle professioni non riconosciute: counseling, pedagogia clinica, coaching, consulenza filosofica, pedagogia pratica, e chi più ne ha più ne metta.

No, le scuole che formano queste figure non vi diranno, cari colleghi, che formano abusivi: diranno che formano un qualcosa di nuovo.
Ci salverebbe la giurisprudenza, se il CNOP avesse voglia di tenerla in considerazione.
E’ dai tempi della sentenza Zonta, ovvero dall’inizio della storia del contrasto all’esercizio abusivo della professione di psicologo fino a quelle più recenti, che i giudici dicono in sentenze varie ma sempre univoche, la stessa cosa: dal punto di vista della formazione, ciò che non si deve fare è illudere delle persone di poter esercitare in concreto qualcosa che diventa molto, troppo simile a ciò che fa un professionista abilitato. Ad esempio, lo psicologo.

Ad esempio, che valore ha l’attestato che ti qualifica come filosofo pratico se non a vendere un’illusione? Cosa farà domani l’illuso? E’ davvero necessario aspettare che venga denunciato? E il suo formatore resterà nel frattempo tranquillo, a vendere le sue illusioni?
L’articolo 21 odierno dice un secco NO!

Che cosa può significare insegnare le tecniche del colloquio, o l’utilizzo di un test a un soggetto che non è abilitato all’esercizio di professione psicologica e poi mettergli in mano una carta che gli attribuisce un “nome nuovo”, ad esempio “counselor”? I tribunali hanno sanzionato chi faceva questa operazione e ha introdotto il concetto di “orientamento teleologico”, che configura il reato in base alla finalità dell’atto formativo. Illudere un disoccupato con la terza media di poter fare un colloquio di cura, ad esempio.

Ecco il vuoto, ecco il nulla, ecco il punto che non è più trattato.

Oggi il nostro Consiglio Nazionale sta tornando indietro di 15 anni, riportandoci ad un contesto in cui l’articolo 21 viene di fatto vanificato nella sua funzione.
Esiste tuttavia una minoranza di colleghi che per tirare a campare, con un lauto guadagno è disposta a vendere gli strumenti della professione, a illudere qualche libero cittadino di poter mettere a frutto la propria sensibilità e propensione all’ascolto degli esseri umani facendone una professione.
Ci si aspetta che l’Ordine Psicologi dica a questi soggetti qualcosa di chiarissimo: NO!
L’articolo 21 serve a questo.

Voglio invitare tutti i colleghi a riflettere molto sul nuovo articolo 21 e a votare in modo contrario alla sua revisione.
Questa non è la parola di chi vede lo scempio fatto su un lavoro di riflessione durato molto tempo, ma è piuttosto il pensiero di chi ascolta giovani colleghi sconcertati dall’esistenza di siti internet in cui ancora oggi c’è chi afferma di poter esercitare abusivamente qualsiasi cosa, e colleghi disposti a insegnarlo, senza fare i conti, ancor di più oggi, proprio con nessuno.

Il “21” non si tocca.
La psicologia non può essere svenduta




Le parole dell’analfabeta

Sulle parole del minorenne dello stupro di Palermo, la psicologia e i minori autori di reato

 “Cumpà l’ammazzammu, ti giuro a me matri, l’ammazzammu, ti giuro a me frati, sviniu… Sviniu chiossai di na vota… Ti giuro, ava muoriri, me frati… Na fic… sette, u vo capiri? Mi fici lassari u contatto, a chista mancu a canuscievo io, a pigghiaru l’amici mia e iemmu a fic…, minchia siette, mamà…! Non m’a firassi cu sette masculi, cumpà ficimu un macello, n’addivertemmu, ti giuro a me patri, troppi cianchi!” (Frasi scambiate via social dal coimputato diciassettenne dello stupro di Palermo la notte della violenza)

Sgombriamo il campo dagli equivoci. Quando sette ragazzi abusano in gruppo di una ragazza forse a tratti incosciente, almeno stando agli scambi social di quella notte tragica “Sviniu chiossai di na vota…”, “È svenuta più di una volta”, questa cosa non ha niente a che vedere non solo con l’amore, ma neppure con l’eros. Il piacere, nelle violenze sessuali, c’entra poco. C’entra il tempo che passa, c’entra il confronto sociale, c’entra la povertà simbolica di adolescenti in corto circuito nella gestione di compiti evolutivi rimasti bloccati da qualche parte. Ciò che viene di sicuro erotizzato, ce lo dice il nostro diciassettenne che pronuncia parole quasi a caso, nelle violenze di gruppo è il gruppo stesso, e infatti “le cose belle si fanno con gli amici”. Ed è erotizzata la dimensione di sopraffazione, di violenza, la negazione assoluta della possibilità dell’esistenza dell’Altro: “l’ammazzammu… ava muoriri…”.

Quel delicato processo in cui ci si mette in gioco nei primi tentativi di seduzione, in cui la risposta può essere un sì come un no, è un rito di passaggio che la violenza surroga, simula, nega. Quel diciassettenne continua a fare lo stesso gioco, rifugiarsi nel rassicurante territorio in cui sette uomini con anche troppa facilità possono sopraffare con la forza un’unica ragazza e trovare la cosa divertente “troppi cianchi…”. Quel ragazzo non ha fatto ancora i conti con la propria impotenza, con la propria fragilità, con le proprie incapacità. Glielo ricorderanno i detenuti del carcere che lo aspetta, i quali, attraverso l’applicazione di un’etica semplicistica ma precisa, sanno bene che tutta quell’esibizione di aggressività smaccata e un po’ troppo esibita nasconde un’impotenza strutturale profonda. Stai scappando dalla paura della tua piccolezza, e lo fai mescolandoti a quelli che sono “veri” trasgressori. Questo “millantato credito” viene sanzionato gravemente dai compagni di istituto penale, che tipicamente attendono gli stupratori, come i rapinatori di anziani, come chi fa male ai bambini, con identica attitudine all’applicazione di sanzioni semplici quanto dure.

Loro, i ragazzi degli IPM, lo sanno. Sanno che quell’incompetente relazionale, quell’impotente affettivo, quell’analfabeta simbolico, con le sue parole che dichiarano guerra all’etica condivisa, che provocano, dimostra solo la pervicace fragilità di un “nudda ammischiato cu nente”. Del quale ci sarà – comunque – molto da domandarsi per i periti che se ne occuperanno. Maturo o immaturo, capace di intendere o no, destinato ad un futuro di detenzione o di cure psichiatriche, certo non siamo di fronte a nulla che abbia a che fare con la forza. 

Quando i crimini sono commessi da persone di età inferiore ai 18 anni, i casi sono molto spesso così, dilemmatici, complessi, spingono naturalmente a interrogazioni profonde. Quali famiglie hanno prodotto questa uscita dal solco dell’aratro, questo “de-lirio”, quale dimensione culturale e sociale del gruppo dei pari, quali luoghi, quali istituzioni.

Alla fine, ed è giusto, tocca estendere il campo fino a interrogarci anche su di noi. Cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo mancato di fare perché succedesse questo, cosa dovremmo fare perché non ci sia più un ragazzo che si diverte a stuprare, in sette, una ragazzina. 

Non ci possiamo permettere che la prigione, nel caso di questo ragazzo sia effettivamente  per lui il “riposo del leone”, che forse leone non è ma un gattino aggressivo e pericoloso, il quale, appena uscito e per i prossimi quaranta o cinquant’anni farà avanti e indietro i luoghi di detenzione che lo Stato gli destinerà.

Tutta quella provocazione gridata sui social domanda già oggi un limite, è un appello alla Legge. Lui grida frasi estreme, eccessive, cerca disperatamente una legge che funzioni, che lo fermi, come non ha mai probabilmente vissuto prima di ora; nel caso di quel ragazzo l’incarnazione della Legge non ha mai funzionato come dispositivo simbolico, la legge non è stata applicata o è stata applicata malissimo, probabilmente fin dalla prima infanzia. 

Non c’è chiaramente alcuna giustificazione. Tutto il processo all’autore di reato è centrato sugli “accertamenti sulla personalità del minorenne” previsti dall’art.9 del DPR 448/88, che mettono al centro del processo un atto psicodiagnostico in senso lato. Quello che si deve comprendere è che cosa se ne fa quel ragazzino, così giovane, così in fondo relativamente poco distante dal momento della propria nascita, di un’azione così orrenda, così difficile da condividere, da pensare soltanto. Due principi della legge minorile italiana sono che la detenzione è residuale, e il sistema deve incidere in maniera minima sul loro percorso di vita. Tuttavia, fatti come quello di Palermo non possono, non devono ripetersi. 

Quello penale minorile è un sistema che esige risorse; bisogna sapersi fare le giuste domande e utilizzare i giusti strumenti per dare delle buone risposte ai giudici. Quasi tutte le risposte di cui hanno bisogno ruotano peraltro intorno alla stessa domanda: perché? Non siamo buonisti: comprendere non significa giustificare. Questo particolare ragazzo, ad esempio, sta gridando, al mondo dei social, il suo bisogno di confini, di limiti, di Legge. Oggi servono sbarre, e sbarre sono state, grazie alla buona decisione di un GIP di turno in un torrido Agosto; certo, oggi in termini di misura cautelare. Poi, si vedrà. Servirà capire qual è il delirio di onnipotenza in gioco, quale la fantasia di recupero maturativo che sta alla base di quell’atto con cui quel minore ha deciso di mettersi contro il senso comune, contro l’intera società civile, non limitandosi alla commissione di un atto orrendo. No: rilanciando attraverso i social una pervicace, instancabile provocazione al mondo, quasi volesse dichiarare la sua personale guerra a tutto. E torna la domanda (alla quale risponderanno i periti): perché? “Chi si mette contro di me si mette contro la morte”: già, amico mio, perchè tra queste parole poco pensate ce n’è una che torna: te la senti proprio dentro, la morte. Per questo quando “l’ammazzammu”, quando l’hai ammazzata, quello scricciolo di ragazza, ci hai fatto su tanti chianchi, ci hai riso su. Noi, non ridiamo, nel vedere quella foto in cui sette carnefici portano un’innocente verso un patibolo privato. 

Come ci è entrata, chi ce l’ha messa, che ci fai a giocare con la morte? Intorno a questo tema gli psicologi sono chiamati a esprimersi con le migliori parole che hanno a disposizione, saccheggiando gli strumentari più sofisticati, perché in fondo la sicurezza sociale, nel caso dei minori autori di reato, come raramente accade, è affidata alla bontà di una diagnosi lontana dal DSM e da una messa alla prova che deve ritagliare l’abito del futuro su misura di quel particolare minore. Possibilmente togliendo la morte da dentro di lui, e dal mondo di fuori in cui cammina. 

Mauro Grimoldi

Responsabile del Master triennale in Psicologia Giuridica IMPG; CTU e Perito per i Tribunali e la Corte d’Appello di Milano, Monza, Piacenza e Brescia. Già responsabile del servizio di valutazione dei minori autori di reato per il TM di Brescia dal 1997 al 2013. Autore di “Adolescenze Estreme” e (in fase di pubblicazione) “Dieci lezioni sul male”

www.masterpsicologiagiuridica.com

www.maurogrimoldi.it

 




La psicologia della gestazione per altri. Perché si può non dire di no (a certe condizioni).

Tommaso Giartosio ha esordito in un convegno recente sostenendo che sulla GPA si possano avere solo due posizioni sensate: essere contrari o essere in dubbio.
Partirei da qui. Da un po’ di saggezza su un tema molto discusso e ostacolato già nei termini: utero in affitto, per esempio. C’è la novità, che genera sempre resistenze. Ci sono i diritti dei genitori, dei donatori, della gestante e del bambino che nascerà. C’è il fatto che la GPA è una questione che riguarda il desiderio di genitorialità, che tocca moltissime coppie eterosessuali (che non lo dicono) e una minoranza di coppie dello stesso sesso (che non possono non dirlo).
C’è di che riflettere.
Questa è la condizione ideale per il fiorire delle argomentazioni – in ampia prevalenza contrarie alla GPA – più disparate. 

Primo argomento: l’impatto emotivo sul bambino.  

Sostiene Silvia della Monica: “La gestazione per altri può generare complessità emotive e mettere a rischio i legami familiari, poiché la separazione tra il bambino e la madre surrogata può causare disagio e conflitti emotivi.”
Non è vero. L’argomento è contraddetto da pressoché tutta la letteratura sul tema. Imrie, S. e Jadva, V. (2014) hanno dimostrato che i bambini nati da surrogazione non mostrano differenze in termini di adattamento psicologico, qualità delle relazioni con i genitori o sviluppo cognitivo rispetto ai bambini nati da concepimento biologico.
Inoltre l’argomento trascura un fatto noto a chi si occupa di famiglie e infanzia: dal punto di vista del bambino i genitori naturali sono i più pericolosi. Concepire un bambino può essere un atto molto semplice e anche ben poco pensato. Non c’è nessun controllo istituzionale, nessuna verifica delle competenze genitoriali, del desiderio che accompagna il progetto del bambino che nascerà. Si può nascere “naturalmente” da ottimi genitori come anche da padri e madri tossicodipendenti, violenti, abbandonici e perfino abusanti. La genitorialità biologica non offre garanzie. Per poter funzionare correttamente come genitori occorre la capacità di fare quello che Massimo Recalcati definisce ‘un atto di adozione simbolica’, ovvero scavare un posto nella propria vita al piccolo da proteggere e da crescere. E questo passaggio è del tutto indipendente dalla modalità del concepimento.
In tutto questo, il ruolo della primissima fase gestazionale rispetto allo psichismo del bambino non deve essere necessariamente negato. Esiste in psicoanalisi una teoria che riguarda l’esistenza di un inconscio non rimosso, ovvero di una parte dello psichismo che si costruirebbe nel corso delle fasi più precoci della vita. Dando per buono questo postulato, non appare rilevante il fatto che al momento della nascita avvenga un’ideale staffetta, un passaggio di consegne tra la madre della gestazione e la madre dell’adozione. Blake, L. et al. (2016), hanno rilevato che i bambini nati da surrogati non mostrano differenze nel benessere psicologico rispetto ai loro coetanei. Non vi è nessuna teoria, né tantomeno nessun elemento di prova che consenta il riconoscimento della madre gestante da parte del bambino durante i primi nove mesi di quasi totale incoscienza, né tantomeno qualche tipo di reazione in caso di “adozione”. 

Secondo argomento: la madre gestante viene privata del “suo” bambino.

La surrogazione prevede una separazione tra la gestante e il bambino che ha “ospitato” e partorito per nove mesi. Questo dice poco sul piano psicologico. Il punto è come viene vissuta la scelta individuale della donna alla base della gestazione e se questa scelta si modifica durante l’esperienza della gravidanza.
Quando Laura Boldrini sostiene che “La gestazione per altri rappresenta una forma di sfruttamento del corpo femminile, che mette a rischio la dignità e la salute delle donne coinvolte”, di per sé sostiene qualcosa che è contraddetto da molti dei casi noti anche in Italia. Van den Akker, O. (2007) ha osservato che molte delle “surrogate gestazionali”, che non sono geneticamente legate al bambino che portano, non provano un attaccamento materno durante la gravidanza, il che potrebbe facilitare la separazione dal bambino dopo la nascita. Certo, la donna che fa una scelta così delicata lo deve fare sulla base della propria assoluta libertà e consapevolezza, che non in tutti i casi – e forse non in tutti i paesi – potrebbe essere ugualmente facile da garantire. Certamente negli USA, in Canada e in UK (dove la possibilità di GPA è limitata ai cittadini inglesi) è più facile accertare che le donne decidano liberamente sull’uso del proprio corpo.
Nei casi migliori – tra cui l’esperienza già citata di Giartosio – l’esperienza della gestante viene paragonata a quella di un genitore affidatario, di una balia, di una tata molto speciale che abbia un rapporto particolarmente intimo e continuativo con il bambino di cui si prende cura e, non di rado, con i futuri genitori. Ancora una volta, la ricerca conferma questa conclusione: Golombok, S. et al. (2013) hanno riscontrato che la maggior parte delle madri surrogate mantiene delle relazioni positive con le famiglie che hanno aiutato a formare e che possono essere una fonte di supporto e soddisfazione.
E’ assolutamente legittimo, tuttavia, domandarsi se si dovrebbero porre delle regole rispetto alla protezione della relazione tra madre gestante e bambino e tra la stessa e i genitori che chiedono la surrogazione. Per ottenere il migliore dei risultati possibili, che non può certo essere dato per scontato, evidentemente sarebbe necessaria un’attenta valutazione sia della coppia chiede la GPA, sia della persona che si propone per la gestazione, la quale, nel migliore dei casi, oltre alla libertà di scelta imprescindibile, dovrebbe idealmente possedere motivazioni personali e un certo certo grado di tranquillità rispetto ai temi che riguardano il proprio corpo. Tutto questo non cancella evidentemente l’esistenza di un rapporto di scambio ma per certi versi costituisce uno sfondo che dovrà essere attentamente valutato e soppesato. Del resto, in un Paese come il nostro, con una legge per l’adozione ancora molto limitante, forse non al passo con i processi della società civile, ma certamente molto attenta ai diritti del minore e al percorso degli aspiranti genitori, sarebbe sorprendente che una pratica che implica più soggetti possa essere esente da un sistema di controlli e verifiche. Non fosse altro per evitare ciò che sostiene Stefania Bartoccetti, quando esprime il timore che “la gestazione per altri solleva gravi interrogativi sul consenso e l’autonomia delle donne coinvolte, poiché spesso sono influenzate da dinamiche sociali e pressioni esterne che limitano la loro libertà di scelta”.  

Terzo argomento: non si può affittare il corpo di una donna, non si possono comprare i bambini

Lo dice magistralmente Elisabetta Canitano: “La gestazione per altri è una pratica che trasforma il corpo delle donne in una merce, alimentando un mercato che sfrutta la loro intimità e rendendole oggetti di transazione.”
L’argomento tocca quindi l’uso del denaro e i limiti a questo uso. In un bellissimo saggio di Claudio Widmann, il denaro viene definito “equivalente universale di valore”, poiché si tratta di un bene che può essere convertito in ogni altro bene. Inevitabilmente, lo scambio di qualunque valore in denaro e la trasformazione in altri beni o valori non può essere sempre consentita. Si tratta in sostanza di stabilire, detto in gergo giuridico, quali sono i diritti disponibili al singolo individuo. Non mi sembra particolarmente convincente che questo limite sia costituito dall’utilizzo del corpo. L’esempio dello sportivo, che vive delle proprie prestazioni fisiche, circondato spesso  da un afflato di stima collettiva, mi pare sufficientemente chiaro. Ci sono situazioni ben più umilianti e usuranti: lavori che riducono l’aspettativa di vita in modo significativo, lavori notturni, in catena di montaggio, in cava o galleria. In definitiva il tema si riduce della domanda: fino a che punto io posso disporre del mio corpo? Se è ovvio il limite costituito dalla decisione di danneggiare il corpo per ottenere un pagamento, come accade nella pratica abietta della donazione di organi, un tema che possiede interessanti similitudini è l’ipotesi che si possa pagare il sangue, che in Italia può solo essere donato. E’ evidente che vi possa, anzi che debba esserci un punto nel quale al diritto soggettivo debba essere posto un limite. Fino a lì fai quello che vuoi; oltre no. Il corpo è mio e me lo gestisco io fu uno slogan delle femministe della fine degli anni ’60 ma che rimane valido solo fino a un certo punto. Va aggiunto che certamente in questo caso la GPA risponde solo al desiderio di genitorialità di una coppia, e non a un’esigenza di tutela di un bambino in una condizione di rischio. Occorre tenere conto anche di questo quando lo Stato decide se quel diritto è o non è soggettivamente disponibile.

Quarto argomento: lo sfruttamento dei paesi poveri.

Eppure viviamo un tempo in cui la maggior parte degli oggetti che indossiamo, delle auto che guidiamo, degli elettrodomestici e dei giocattoli dei nostri bambini, di ogni cosa che ci circonda è prodotta in paesi dove la manodopera è a basso e bassissimo costo, spesso con limitate garanzie e limitati diritti per i lavoratori, magari sottoposti a regimi autoritari. Chi, come Alessandra Moretti sostiene che “la gestazione per altri crea una disparità sociale, poiché solo chi ha risorse finanziarie può permettersi di ricorrere a questa pratica, accentuando le disuguaglianze tra le donne”, per fare una simile affermazione dovrebbe vivere in una condizione di pauperismo francescano per non risultare incoerente. Chi di fronte alla gestazione per altri richiama il tema dello sfruttamento può benissimo essere la stessa persona che assume in nero una colf o una badante o che va in vacanza in villaggi di lusso in mezzo a paesi in via di sviluppo. Per questo motivo si tratta, tra tutti, dell’argomento che mi risuona di un’ipocrisia più difficile da tollerare.
Il divario economico è una realtà, ed è vero che può rendere particolarmente interessante per una ragazza affittare il proprio corpo se il corpo è un diritto disponibile, se una ragazza può prendere una decisione su di esso. Se si tratta di una scelta libera, la maggiore convenienza del denaro occidentale in paesi in via di sviluppo è solo un vantaggio per la ragazza che decide di dedicarsi alla gestazione. Del resto, ogni eventualità di surrogacy è concepibile solo in un cornice di massima trasparenza e controllo internazionale, per evitare situazioni di sfruttamento e obbligazioni di terzi soggetti che costringano le donne a compiere un atto che, senza la dimensione della scelta consapevole, appare certamente inaccettabile.

In conclusione, la GPA appare un tema aperto. 

La ricerca dimostra che l’adozione di pratiche genitoriali tramite surrogazione non comporta danni psicologici o compromissioni né per i bambini né per le madri surrogate. I dati mostrano che i bambini nati tramite surrogazione possono crescere in maniera sana e svilupparsi normalmente, e che le madri surrogate possono vivere l’esperienza senza sofferenze psicologiche persistenti. Ciò la dice lunga sul valore delle roboanti e scandalizzate dichiarazioni di contrarietà sulla base di “sensazioni”. Vero è che la surrogacy è una pratica che non può essere considerata esente da rischi, che pone delle esigenze di verifica del rispetto delle scelte individuali, della libertà della donna, della sicurezza sanitaria, della trasparenza del processo. Sarebbe ad esempio fondamentale garantire che le madri surrogate non siano sottoposte a coercizione, e che tutte le parti coinvolte siano adeguatamente valutate e supportate dal punto di vista psicologico prima, durante e dopo il processo di surrogazione.  Introdurre un reato universale costituisce un massivo intervento di limitazione alle libertà individuali su base esclusivamente ideologica.
La surrogazione può rappresentare una strada preziosa per chi desidera avere un figlio e non può farlo naturalmente. La ricerca scientifica ci offre una prospettiva rassicurante, ma il cammino verso una pratica di surrogazione etica e sicura richiede sforzi e attenzione. Non possiamo permetterci di semplificare una questione così delicata: il diritto di diventare genitori non deve mai sovrastare i diritti e il benessere di coloro che ci aiutano a realizzare questo desiderio.




Il motivetto leggero del CNOP

Per il resto del mondo è stato “La dolce vita” di Fedez.

Per gli psicologi italiani, gente che notoriamente tende a rifuggire gli eccessi di leggerezza, in questi mesi estivi del 2022, il tormentone è stato un altro, e, a dirla tutta, non è stato nemmeno musicale.
Molti sembrano avere passato l’estate a interrogarsi sul narcisismo, partendo dall’articolo di una collega, Mina Rienzo, dal titolo “Conoscere e comprendere l’abuso narcisistico”.

L’articolo, che di per sé avrebbe goduto della sua naturale diffusione, è stato “rimbalzato” dalle pagine del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, niente di meno, fino a raggiungere un totale di 14.801 letture. Tra cui la mia.

Poiché è noto che il concetto di abuso narcisistico non esista nei manuali psicodiagnostici (DSM o ICD), la cosa ha suscitato l’attenzione indignata di una moltitudine di colleghi, tanto che si è generata una piccola “bufera” (così è stata definita) che, forse complice la noia della campagna elettorale e lo stallo della guerra in Ucraina, è finita perfino sulle pagine del quotidiano La Repubblica. Tanto da costringere il presidente Lazzari a un veloce dietro front: “noi non siamo una società scientifica”. Giusto.

La questione, dico subito il mio pensiero al riguardo, riguarda esclusivamente un orizzonte semantico, ovvero i significati definiti e cristallizzati nelle parole che utilizziamo.

Il contesto è in grado di definire il senso alle cose che diciamo. Si pensi al contesto culturale, iconico, del bar, come luogo di cristallizzazione della cultura pop.
Non c’è dubbio che tra quelle pareti arredate da bottiglie e banconi e quelle tovaglie macchiate di spritz e calici di prosecco, usare parole come depressione, cerebroleso, delirio, non coincida con i corrispettivi scientifici. Il marito che dica alla moglie “non fare l’isterica”, in una discussione concitata, difficilmente si rende conto di evocare le grandi crisi convulsive che alla fine dell’ottocento venivano esibite agli studenti della Salpetriere e che permisero al giovane neurologo Freud di costruire, da quei sintomi, da quelle anestesie, da quelle cecità e paralisi l’idea dell’esistenza dell’inconscio come motore sintomatico, idea da cui nacque la psicoanalisi.

Cambiamo contesto. Su uno dei siti di vendita di libri più noti, ibs.it, digitando “narcisismo” nel motore di ricerca, dopo due testi di Gabbard e Bollas, classificati nella categoria “medicina”, compaiono una serie di libri che, non a caso, lo stesso IBS attribuisce ad altra categoria. Alcuni titoli in prima pagina: “difendersi dai narcisisti”; “il manipolatore narcisista”; “intervista a un narcisista perverso”; “egoisti, egocentrici narcisisti & co”; “guida completa per tutelarsi da genitori narcisisti”; “come volersi bene e potenziare l’autostima danneggiata da una relazione con un narcisista”; “il mondo è pieno di narcisisti”; “basta narcisisti!” (con il punto esclamativo). E il mio preferito: “100 motivi per chiudere con un narcisista”, con tanto di bella copertina con un cuoricione rosso spezzato.

Si tratta di testi scritti quasi esclusivamente da donne. In questi testi i narcisisti (dai quali liberarsi) sembrano essere quasi sempre uomini. Così come il narcisista sarebbe, in quel contesto semantico, egoista, traditore, manipolatore e “violento psicologicamente” (altra definizione difficile da circoscrivere).

Anche se per pochissimo tempo, sposto l’orizzonte e cerco di dire qualcosa “da psicologo”.
La teoria psicoanalitica del narcisismo prende le mosse nei primi anni del 900, con la costruzione della seconda topica freudiana, partendo da quella fase dello sviluppo del piccolo di uomo in cui il bambino vive in uno stato indifferenziato, non essendo ancora in grado di distinguere tra sé e l’altro, tra l’interno e l’esterno: il prototipo è la vita intrauterina. “Il narcisismo primario è una sorta di amore, che, più che di se stesso, può essere definito con se stesso” (Semi, 2000, pag. 30).
“Il regno di Narciso e del narcisismo”, ricorda Grunberger (Il narcisismo, 1977), “è un universo senza oggetti, dove non si può e non si deve parlare di pulsioni, in quanto l’emozione, l’immagine è immagine di nulla e di nessuno”.
Poi, il bambino nasce fisicamente e psichicamente e perde l’onnipotenza illusoria di quel mondo senza oggetti: “La nostra prima esperienza è una perdita” scrive Lou Andreas Salomè, “poco prima eravamo un tutto, un’entità indivisibile […] ed ecco che, ad un tratto, costretti a nascere, non diventiamo altro che una particella residua dell’essere”
Ora, se i genitori riescono nel loro compito di dare valore al bambino (his majesty the baby) il loro amore nei confronti del figlio permetterà a quest’ultimo di elaborare la perdita costruendo un “ideale dell’Io” con il quale si confronterà sempre. “Lo sviluppo dell’Io” dice Freud, “consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e dà luogo ad un intenso sforzo teso a recuperarlo. Questo allontanamento avviene per mezzo dello spostamento della libido su un Ideale dell’Io e (…) il soddisfacimento è raggiunto grazie al raggiungimento di questo Ideale”.
Il narcisismo secondario produce quindi, in ciascuno e in misura diversa, una tensione tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra reale e ideale, tra il tempo attuale e il futuro. È questo il motore che spinge a raggiungere i propri obiettivi, costituendo la motivazione profonda di gran parte delle creazioni artistiche, letterarie, scientifiche, fino a spiegare comportamenti estremi come l’eroismo e il martirio: “Il problema che deve essere risulto (Kohut, coraggio ed eroismo, 1970) riguarda coloro la cui fedeltà alla continuità del sé e degli ideali diventa più importante della sopravvivenza biologica stessa”.
Anche chi non aspira al martirio e non scrive importanti romanzi possiede questa spinta profonda: il rapporto di ciascuno con il sé quando si guarda allo specchio (si potrebbero e dovrebbero scomodare Winnicott e Lacan), quando si confronta con le proprie realizzazioni, con lo sguardo dell’altro, tutte le problematiche di autostima (debole, eccessiva) hanno in definitiva molto a che fare con il narcisismo.
La cosa, ovviamente, non ha solo valenze positive, ed è vero che vi può ben essere un’eccessiva polarizzazione intorno alle tematiche narcisistiche rispetto alle pulsioni che spingono verso l’oggetto psichico, il che può generare forme di depressione tipiche, rendere difficile la relazione con l’altro, compromettere la sessualità; in due parole, diventare un disturbo (della personalità) quando, secondo la definizione del DSM, genera “difficoltà nella sfera sociale, affettiva e lavorativa.”

Non vado oltre. Il narcisismo è una cifra caratteristica dell’umano, e di per sé non è “né buono né cattivo”, per dirla ancora con Grunberger. Per quelli davvero serissimi, che hanno subito il tormentone e vogliono ancora approfondire, consiglio di non fidarsi di queste mie pochissime righe ma di affidarsi agli autori che si sono più occupati di questo tema, da Kernberg a Kohut, da Green al recente saggio di Bollas, fino a quella piccola perla, che è un vero compendio del tema, a firma di Vittorio Lingiardi, “Arcipelago N”, che consiglio vivamente a qualunque psicologo di inserire nella propria biblioteca.

Ora, tornando alla nostra piccola polemica estiva, dobbiamo ricordare con Watzlawick, che ogni comunicazione contiene non solo un contenuto ma anche un aspetto di relazione, con le sue regole.
Per questo motivo sarebbe sbagliato che uno psicologo intervenisse nella discussione degli inquieti coniugi al bar citato prima, nel momento in cui lui dice a lei: “non fare l’isterica!”, sedendosi al loro tavolo presentandosi e sostenendo di non avere in effetti ravvisato nella signora, nonostante si trovi in situazione di evidente stress, dei disturbi di conversione. Il collega malcapitato, non solo dimostrerebbe di non avere letto la pragmatica della comunicazione umana, ma rischierebbe di esporsi a una reazione piuttosto espulsiva da parte di entrambi gli inqueti avventori. Consiglierei invece al collega di ordinare un Hugo analcolico (sempre perché gli psicologi non sono mai gente troppo leggera) riflettendo semmai, ma solo tra sé e sé, sullo splendido saggio sull’isteria di Christopher Bollas.

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, nel rimandare il post di una collega ha “preso un topicco” (espressione milanese che amo e che significa “inciampare su un piccolo ostacolo”) dello stesso genere e tipo del collega che sieda al tavolo del bar. Ha perfettamente ragione il presidente del Cnop Lazzari a ricordare a “Repubblica” che il CNOP non è una società scientifica, ma proprio per questa ragione è improprio per una realtà che rappresenta tutti gli psicologi italiani (100 mila circa) pescare un post tra milioni e rimandarlo urbi et orbi, trasportandolo fuori dall’orizzonte di senso in cui era nato e attribuendogli così un valore di exemplum. È un atto estremamente “grave”, nel senso etimologico di “pesante”.

Se si sceglie, se si discriminano i 99.999 che non hanno goduto della pubblicità gratuita (e assai riuscita, nel bene e nel male) offerta dal CNOP alla collega, si può aspettare di essere chiamati a spiegarne, quanto meno, la ragione.

Infondo, l’enigma è tutto qui, la grande polemica dell’estate qui inizia e qui, all’inizio del nostro settembre di lavoro, si conclude.
Buon lavoro e buoni aperitivi a tutti.




L’odore dell’amante

Tommaso è un bambino di nove anni dai capelli ricci, gli occhi vivaci e i modi socievoli.
Quel giorno, però, nella stanza dietro lo specchio in cui si vede da una parte sola, aveva le occhiaie profonde e si sforzava di essere educato, nonostante l’espressione preoccupata.
Probabilmente non aveva dormito.
Per via di quell’emozione che è un misto di paura, rabbia, tristezza e voglia di sfogarsi.
Sapeva di incontrare la psicologa del tribunale.
Per la prima volta qualcuno a cui dire la verità.
Voleva raccontarle che a volte, quando il papà tornava a casa ubriaco, succedevano delle cose.
Voleva dirle che a volte, quando andava a letto, sentiva la mamma e papà che litigavano forte e si chiudeva le orecchie per cercare di non sentire le voci che si facevano sempre più alte e poi i rumori, delle volte.
Rumori che facevano paura, che facevano immaginare cosa succedeva di là. La sua mamma che piangeva.
Voleva raccontare tutto questo Tommaso alla psicologa, nominata dal giudice del tribunale, che stava dietro lo specchio. Ma era strano, perché lei non glielo lasciava proprio fare. Ogni volta che l’argomento diventava quello, lei interveniva e non lo lasciava parlare. Una, due, tre, quattro volte.

Alla fine, Tommaso ha rinunciato.
Ha rinunciato ed è tornato a casa, più triste di prima, con nel cuore la disperazione di chi ormai sa che nessuno farà mai nulla, che nessuno farà mai niente per quella cosa sbagliata, che nessuno lo ascolterà mai.

Quella stessa psicologa consulente del tribunale scrisse che “non aveva ritenuto di fare delle domande al ragazzo sul tema della violenza”.
I genitori di Tommaso non si potevano incontrare, perché la madre era protetta da un’ordinanza restrittiva che impediva all’uomo violento, con cui era stata, di avvicinarsi a meno di 400 m di distanza.
Ma la psicologa diceva che la paura, lei, se la doveva far passare. E quando lo diceva era severa. A un certo punto cominciò a dire anche che il Giudice (Civile) l’aveva autorizzata a contravvenire alle misure di sicurezza (stabilite dal Giudice Penale).
Strano! Lo disse a noi consulenti a voce, ce lo scrisse in una mail. Lo disse, lo scrisse, eppure era falso. Non le credetti e dissi alla mia cliente di non muoversi da casa. Delle cose incredibili che ho visto fare e sentito dire da quella collega se ne occuperà l’Ordine.

Ma quale motivazione l’animava? Per quale motivo una collega deve arrivare a mentire? Perché battersi a favore di chi esercita violenza, impegnarsi per umiliare le vittime? Sembra la storia di un eroe al contrario, di un’anima persa, oscura.
E poi, i concetti che usava e che ho preso immediatamente in antipatia. Collaborazione, genitore naturale, bigenitorialità, rischio di alienazione. Non ha mai usato la parola violenza.
Un arsenale già evidentemente collaudato, fatto di concetti mal interpretati ma forti e consolidati.

Nell’arsenale di questa psicologa mauvais c’è, sicuramente, anche il costrutto dell’alienazione.
Un concetto figlio di un oscuro psichiatra che morì suicida, certamente immerso nel pragmatismo americano degli anni 80 e forse nelle proprie personali frustrazioni.
Richard Gardner ebbe la ventura di osservare un fenomeno che, complice l’aumento delle separazioni, si osserverà, da allora a oggi, sempre più spesso. Nota che, in alcuni casi in cui una coppia con figli decide di separarsi, in una condizione di grande conflittualità, può accadere che un figlio rifiuti categoricamente di incontrare un genitore: di solito quello con cui ha il rapporto meno frequente, che, negli anni ’80, era quasi sempre il padre.

L’oscuro psichiatra fa due errori: primo, pensa e descrive una patologia come se si trattasse della malattia di una sola persona; invece è evidente che si tratta di qualcosa che riguardava un orizzonte più ampio, una dinamica tra tre persone, tutti coinvolti a filo doppio nella faccenda.
Secondo errore, suppone che vi sia più o meno sempre un’attività cosciente, consapevole e attiva di un genitore contro l’altro, una campagna di denigrazione, quasi un’attività “politica” di distruzione del genitore agli occhi del bambino. Immediatamente, la teoria dell’alienazione diventa una teoria etica, moralistica, che individua un colpevole e una vittima. Di solito una madre colpevole e un padre vittima. Diventa una faccenda di lotta di potere tra uomini e donne, un’etichetta che l’alienazione non si scollerà mai più.

Trent’anni più tardi siamo di fronte a Melissa, una ragazzina di undici anni, bella e vivace, che da grande vorrebbe fare l’attrice e che vive con il papà perché da un anno rifiuta categoricamente di vedere la madre. Di fronte ha un’altra psicologa, nominata da un altro giudice, rifiuta l’incontro congiunto con la madre perché, dice, dovrebbe fare il viaggio in auto con lei.
Interrogata dalla psicologa spiega che da quando la madre si è “rifatta una vita” lei “sente l’odore” del nuovo compagno, un odore che non sopporta e che è la principale motivazione del suo rifiuto della madre.

Ci troviamo forse di fronte ad una fase successiva della nostra storia. Oggi è infatti evidente che dietro la cosiddetta alienazione vi è il rifiuto di un genitore che ha usato violenza o che ha una personalità inadatta, o che non c’è mai stato nella vita di un bambino o che non è capace di esercitare le più elementari cure nei confronti del figlio. È un genitore che può e forse deve, in certi casi, essere evitato, a protezione del minore. Non è più tempo di psicologia malvagia. O di ideologia applicata la scienza. Esiste la convenzione di Istanbul, le norme del CSM, le relazioni della commissione femminicidio, le sentenze di Cassazione.

Tutti sono stanchi di sentire parlare di alienazione parentale come strumento per giustificare genitori violenti, e nessuno ha più alcuna intenzione di supportarla né tantomeno di approvarla.

Resta però un problema.
Quale? La domanda si pone per psicologhe e psicologi che non hanno alcuna posizione ideologica, né pro né contro i padri o le madri, né per l’uno né per l’altro.
Esiste una rimanenza di casi in cui dei bambini non vengono coinvolti da una campagna politica ma semplicemente si identificano con il genitore a cui sono più legati, con quello di cui si fidano, a cui vogliono più bene e che per questo fanno proprie delle istanze espulsive profondamente radicate nel modo di sentire di chi in quel momento sta rifiutando la relazione coniugale, genitale, affettiva tra due adulti?

Può darsi che un bambino si faccia carico di quello, che reciti il ruolo dell’adulto, che faccia il grande, che voglia essere un bravo bambino quando essere un bravo bambino implica per forza di cose mandare via colui che si è comportato male, colui che ha abbandonato, colui che ha tradito, colui che non è più un buon partner ma che non necessariamente doveva per forza essere un cattivo genitore.

In definitiva, esiste un rifiuto che possa considerarsi immotivato di un minore nei confronti di un genitore? Melissa, che sente l’odore dell’amante, che sente in quello il male della madre come se fosse lei stessa a essere stata tradita, cos’è? Cosa facciamo con lei?

Quanto spesso capita ai consulenti tecnici dei giudici che lavorano in casi di separazione conflittuale di incontrare situazioni di questo genere? Come si comportano?

Sono domande che sono rimaste sospese nel vuoto, a galleggiare nel limbo tra ciò che si vede e ciò che non può essere detto, ciò che non deve essere pensato, dei problemi ai quali non c’è risposta.