Vorrei, ma non posso…

di Ambra Cavina

A seguito del sondaggio promosso da AltraPsicologia attraverso il questionario è emerso che agli psicologi piacerebbe fare rete, fare gruppo, creare collaborazione, eppure credo che tutti noi ci rendiamo conto di quanto sia difficile, è come se ci fosse un “vorrei, ma non posso, non riesco”.
Ritengo che le conseguenze di questo comportamento siano riconoscibili: non abbiamo visibilità politica e quindi diventa assai difficile tutelare la nostra professionalità e promuovere le nostre competenze nella società.
Mi domando quali siano le motivazioni di questa nostra difficoltà. Come mai noi, il cui lavoro si fonda sulla relazione, non siamo in grado di stabilire proprio fra di noi “buone” relazioni ossia  relazioni basate sulla fiducia, la stima, la solidarietà, la lealtà?

La prima e grande fatica è forse data dalla differenza e dalla differenziazione: la psicologia è una materia, una realtà talmente vasta – credo vasta quanto può essere il genere umano – che si è caratterizzata con diversissime teorie, modelli di pensiero e di interpretazione del comportamento umano e di seguito da altrettante vaste tecniche e luoghi di intervento e di uso della materia stessa.
Il primo obiettivo sarebbe dunque quello di trovare un linguaggio comune e dei contenuti per una pratica comune. Credo che questo sia un processo già avviato in cui perseverare.
L’Ordine stesso ci contiene in una comune prassi professionale, ne traccia le linee guida. Posso portare solo la mia esperienza di psicologa clinica e psicoterapeuta, perché è quello che faccio, esperienza limitata dunque a una Psicologia, e vedo che la pratica clinica stessa porta sempre più a integrare o incrociare le tecniche di intervento al di là dei modelli teorici di riferimento, d’altra parte qualcuno disse che il comune denominatore di ogni terapia è la relazione che si crea tra il terapeuta e chi lo cerca, stesso comune denominatore a fare la differenza nel successo della terapia.

Perseverare in un percorso di incontro tra professionisti con una passione comune, ma un linguaggio e una pratica molto differenti, passa per me non solo nell’incontrarsi e confrontarsi, ma anche nella pubblicizzazione di tale differenza: le persone non solo non sanno cosa fa lo psicologo, ma non sanno cosa fa di diverso uno psicologo da un altro! Questo si traduce poi in una difficoltà a cercare il professionista giusto per quella particolare situazione, tanto più ora che affianco allo psicologo, nascono diverse figure professionali che ruotano intorno all’ individuo, al suo comportamento, al suo benessere, figure rispetto alle quali lo psicologo dovrebbe differenziarsi per formazione e competenze…ammesso che si riconoscano delle differenze!
Penso dunque che questa sia la seconda fatica a creare relazioni “buone” tra gli psicologi: la difficoltà e il bisogno dello psicologo a definirsi, a darsi un’identità professionale, definendo il proprio ruolo rispetto a se stessi e alla società e definendosi anche rispetto ai propri stessi colleghi, in virtù di una propria specializzazione in un particolare settore…siamo abituati spesso a fare di “tutto”, probabilmente perché nel corso del nostro percorso formativo abbiamo “toccato” di tutto, tantissimi ambiti della psicologia, capiamo il valore di ognuno, ma questo non credo significhi riuscire a praticare “tutto”, tanto più quando riusciamo a fatica a rispondere alla domanda “cosa fai da psicologo?!”.
Ho anche incontrato, però, chi sosteneva che uno psicologo è un “tuttologo”, può fare di tutto, poiché occupandosi dell’”Umano”, delle persone, ha capacità molto vaste di leggere la realtà e quindi non esistono settori in cui una formazione e una cultura psicologica non possano essere impiegate. Tale opinione apre alla visione di buone prospettive di mercato per il grande numero di psicologi italiani che cercano lavoro o sono occupati in altre professioni.

Il tema della difficoltà a trovare lavoro mi porta a pensare a un’altra motivazione che conduce a una faticosa capacità di collaborazione tra psicologi, la competizione. Mi venga perdonato il mio limitato e brutale linguaggio economico: se l’offerta – di psicologi – diventa più alta della domanda – chi cerca uno psicologo – non si crea un blocco del mercato? Di fronte a una chiusura del mercato la concorrenza diventa più forte, giusto? Ecco, penso che lo psicologo sia afflitto da una competizione sterile che determina una difficoltà ancora maggiore a trovare una propria specifica occupazione. Questa competizione mi sembra sterile, perché porta a posizioni difensive di chiusura e di isolamento che finiscono per nascondere il valore delle competenze che la nostra professione può offrire e del contributo che possiamo dare, al di là dell’ambito di azione in cui ci troviamo ad operare.
Trovare una strada che porti gli psicologi ad incontrarsi, superando le loro stesse resistenze, può essere il modo più efficace per rendersi visibili come realtà professionale che con le sue competenze può dare un grande contributo nel sociale.
Gli APeritivi promossi da AltraPsicologia e le attese fuori dalla porta dei seggi elettorali durante le elezioni per gli organi ENPAP sono state occasioni per muoversi verso un confronto/incontro per vedere se quel “vorrei, ma non posso” a fare gruppo è superabile a dispetto degli stessi psicologi.