Nulla di ché, intendiamoci, se non fosse che l’ennesima stravaganza di un mondo rovesciato ci impone di rimuginare su alcuni aspetti dell’esistenza. Esiste una tradizione delle comunità terapeutiche in Italia. Non tutta nobile ma pur sempre una tradizione. Parlo delle comunità per tossicodipendenti che da tempo ospitano anche uomini e donne con problematiche psichiatriche.
Storicamente, giusto perché noi italiani un poco ganassa lo siamo sempre stati, l’Italia è il paese in Europa che ha raggiunto il numero più alto di comunità per tossicodipendenti. Non perché avevamo più drogati di Spagna o Inghilterra, ma per una ridotta capacità di programmare ciò che serve e non promuovere ciò che non serve.
In questi anni, invece di governare un fenomeno alimentando la qualità delle strutture, si è pensato bene, di abbandonare tale settore alle sempre più frequenti relazioni clientelari che dopo avere avvelenato parti forse più importanti del nostro paese, si sono orientate su quello che, a torto o a ragione, viene comunque considerato un bacino elettorale.
Parte del leone, chiaramente, l’ha fatta la chiesa e tutti tentacoli con la quale opera nel mondo del sociale.
Il quesito che si pone e che si porrà sempre di più è questo: le dipendenze presentano una serie infinita di problematiche al cui interno la diagnosi diventa elemento orientativo e terapeutico di grandissimo valore. Ci si può permettere una rete di strutture residenziali, parte delle quali si basa prevalentemente sul volontariato e sull’assenza di un pensiero terapeutico che non sia solo quello educativo?
Le comunità devono fare fronte a grandissime difficoltà, non ultima la prassi delle pubbliche amministrazioni di pagare a mesi o anni di distanza. Si soffocano le strutture e, tra quelle che si avvantaggiano, fanno capolino le meno qualificate. Ovvero quelle che avendo meno spese di personale riescono a reggere tali ritardi.
Genitori che fanno i turni di notte, volontari durante il giorno che sostituiscono gli educatori professionali rappresentano una fotografia di quello che accade nel mondo delle comunità terapeutiche finendo con lo svilire interamente sia lo strumento comunità quale intervento, per alcuni, risolutivo e sia il ruolo e l’impegno dei tanti psicologi e psicoterapeuti.
Il volontariato può essere risorsa preziosa in interventi che non presuppongano un alto livello di professionalità. Ma possiamo realisticamente pensare che un tossicodipendente con un grave disturbo di personalità possa curare tale disturbo a forza di pacche sulle spalle e di gruppi educativi?
Da qui nasce l’idea,sempre più diffusa presso i servizi pubblici, che le comunità siano, spesso, strumenti inutili. O la balzana altra idea che solo il farmaco possa sortire effetti miracolosi. Da qui nasce, deleteria, l’idea che la prassi psicoterapeutica possa applicarsi solo a casi non gravi non riuscendo a cogliere che i cambiamenti, in un contesto residenziale, avvengono a seguito di prese, sempre più radicali, di coscienza: dei propri limiti, delle proprie aspettative, delle proprie sofferenze.
Battersi per una comunità professionale ha il significato di difendere una opzione terapeutica di grande valore, a maggiore ragione considerati i tempi che ci aspettano.
Caro Saletti, qui in Italia non siamo ancora arrivati alla distinzione classica di comunità terapeutiche democratiche e non democratiche ovvero di quelle che tengono conto della scelta terapeutica del richiedente e di quelle coattive ( in maggior parte per tossicodipendenti o autori di reato)!
Il sistema economico della salute mentale sta crollando e costringerà a razionalizzazioni e scelte meno clientelari: potrebbe essere una buona opportunità per una selezione naturale e per il mantenimento del lavoro delle sole comunità che producono risultati! che ne pensi?
Marino de Crescente comunità Passaggi ( oricola AQ)
Penso che hai ragione al 90 per cento. Vera la questione delle opportunità ma è’ preoccupante il fatto che non si è’ così sicuri di arrivarci in buona salute. Mi spiego: le comunità’ professionali oggi soffrono enormemente la precarietà’ finanziaria di uno stato ( le regioni) che ti pagano poco e in grave ritardo. Questo implica, allo stato attuale, che un investimento in seria formazione, ad esempio, e’ difficile da perseguire. Le regioni non hanno voglia di governare i processi di selezione qualitativa e noi( del mondo del privato sociale ) siamo troppo accecati dalla nostra identità’ associativa per mettersi insieme e contare di più. Rispetto alla divisione di cui tu parli vorrei farti presente che ormai, anche le comunità per dipendenti, hanno programmi brevi e medio brevi. Ci è’ in stato di detenzione lunghe difficilmente nelle strutture terapeutiche troverà una risposta. A presto e ti premio con un abbraccio essendo tu il primo intervenuto in questa mia nuova avventura editoriale.
La cosa inaccettabile secondo me, è avere buttato via anni e anni di impegno, studio, risorse anche economiche per arrivare a dire quello che hai descritto così bene nell’articolo. Siamo un paese dove tutto va al contrario per chi nel lavoro come nella vita, vuole rimanere libero da lacci e lacciuoli e vuole mantenere un approccio laico alle cose. La chiesa l’ha sempre fatta e continuerà a farla da padrone, il suo peso non è nemmeno paragonabile al nostro.La cosa che mi auguro è che restino sempre vivi impegno e voglia di lottare per cercare di cambiare le cose.
Lavoro da anni come consulente psicologa psicoterapeuta in una comunità per disabili psichici, faccio formazione e supervisione. Il mio principio, mantenere sempre una “parte sana” e competente, l’equipe.
Questa “parte sana” la vedo sempre più raramente nelle strutture terapeutiche, la competenza è ormai un miraggio.
La qualità del lavoro, oggi,è l’ultima delle preoccupazioni… è vero, un mondo al contrario.
Purtroppo, l’irruzione del fattore di ristrettezza economica all’interno dei programmi terapeutici ha influenzato moltissimo la clinica. Oggi si pensa e si lavora su un doppio binario: clinico ed economico. E non sempre si decide a partire dal primo.
Quando si parla di salute e di cura alle dipendenze in Italia, ormai da qualche anno, non ci si riferisce più ad un’unica idea, ma almeno a 20 progetti economici e se va bene educativi e terapeutici differenti. Quelle che vediamo anche nelle dipendenze sono esperienze frammentate e poco valorizzate anche laddove ce ne sono di interessanti. Mancano, in molte regioni d’Italia, criteri di valutazione degli interventi realizzati all’interno delle comunità.
La cura è lasciata alla disponibilità e al senso del dovere (che è una risorsa scarsa, che si esaurisce) di professionisti che cercano di fare bene il proprio lavoro quando va bene, in mano a volontari non professionali che con una “pacca sulla spalla” cura quando va male.
Il nostro compito (noi che riteniamo di stare nel primo gruppo) , forse, è di fare pressione perché il pubblico ci venga dietro e cominci a fare un lavoro di programmazione delle politiche sulla dipendenza.
Antonio Casarola.
Si, un pensiero critico sullo strumento delle comunità andrà fatto. In parte, per le dipendenze, e’ quello che sta accadendo presso il dipartimento nazionale lotta alla droga. Un impegno degli operatori professionali e’ necessario. Sempre che si creda in queste strutture. Cordiali saluti
Ho provato un certo conforto a leggere quest’articolo e ti ringrazio per aver delineato così semplicemente una realtà che sembra assolutamente ai margini delle tante problematiche che viviamo in questo periodo storico. Lavoro in una comunità terapeutica per le dipendenze e tutt’intorno si stanno sgretolando progetti … la struttura che si occupava della fase osservazione e diagnosi chiuderà a fine gennaio, quella che si occupava della fase finale di reinserimento sociale e lavorativo chiude a fine anno e attualmente rimaniamo in piedi noi della fase centrale terapeutica, in attesa di risposte dalla ASL. Se fino a qualche anno fa, pensavo a quante risorse in più sarebbero state necessarie per fare un lavoro qualitativamente significativo, adesso sembra di essere semplicemente in lotta per la sopravvivenza, ormai sottoposti a tagli da tutte le parti e senza particolari prospettive per il futuro. Nonostante questo quadro drammatico di una realtà tutto sommato piccola come la nostra (venti ospiti e otto operatori per intendersi), cerco di immaginare oltre e mi chiedo quali cambiamenti di rotta siano utili per un futuro migliore. Davvero un arduo compito… eppure, appena rientrata da un viaggio in India, porto con me una buona dose di speranza. Quello che ieri è stato costruito sulla sabbia, spero si possa cominciare per piccoli passi a costruire su basi più solide e durature, almeno per le generazioni che verranno.
Bisogna crederti, Simona, e’ la condizione minima per individuare le strategie giuste tese a rimettere al centro della cura l’ascolto delle parole. Un enorme comune denominatore.