Ezio Mattio, psicologo psicoterapeuta, racconta in questo dialogo il suo modo di lavorare nei contesti scolastici, con insegnanti e alunni. Una modalità che amplia e rivede lo stereotipo dello psicologo scolastico, votato al più classico “sportello di ascolto”. La scuola, luogo di educazione e formazione per antonomasia, come ogni altro contesto, è luogo di narrazioni. Narrare significa dare voce ai personaggi e agli eventi, metterli insieme per fare “sense making”, unire linguaggi e costruire storie. Ezio, in questo dialogo, ci racconta di come da un piccolo espediente narrativo, possa nascere un progetto che coinvolge alunni e insegnanti, che utilizza differenti linguaggi, dalla testimonianza alla musica rap, per arrivare al linguaggio cinematografico. Buona lettura
AL – Caro Ezio, Puoi farci una tua presentazione? Chi sei e di cosa ti occupi?
EM- Mi chiamo Ezio Mattio, ho 39 anni e sono psicologo, psicoterapeuta e
psicodrammatista adleriano.
Dopo la laurea ho fatto un master in psicologia sociale in Inghilterra, poi mi
sono specializzato in psicologia clinica all’Università di Torino e ho appena
finito un percorso biennale in psicodramma infantile ad orientamento
adleriano.
Nel mio lavoro ho seguto sempre due filoni. Da un lato la formazione e
dall’altro la clinica in particolare con i bambini e gli adolescenti.
Da subito, cioè dopo la laurea, ho inziato a occuparmi di formazione degli
insegnanti attraverso il metodo narrativo. Questo è un ambito di lavoro e una
metodologia veramente appassionanti perchè sono aperti. Non si sa mai dove si
va a finire con il metodo narrativo. Per la libertà che ha e per la ricchezza
che porta non si finisce mai di aprire nuovi progetti. Facendo formazione con
gli insegnanti attraverso la narrazione ho imparato tantissimo e mi sono reso
conto quanto sia trasformativo il metodo stesso sul modo di lavorare dei
docenti.
Ho la fortuna da dieci anni a questa parte di entrare in classe nella
formazione professionale come psicologo. E ascoltando e dialogando coi ragazzi
gradatamente ho cambiato idea sugli adolescenti. Che sono considerati sempre un
problema e mai una risorsa. Io ho imparato a considerarli una risorsa per noi
adulti. Che ascoltandoli cambiamo. Sempre.
AL- Ci spieghi, o meglio ci racconti, cosa vuol dire e cosa si intende per “formazione degli insegnanti con il metodo narrativo” nella tua pratica?
EM- Nella mia pratica professionale lavorare con gli insegnanti significa
utilizzare il metodo della psicologia del paesaggio. un metodo ideato da Carla
Gallo Barbisio, mio supervisore, professore di psicologia dinamica e psicologia
dell’arte e della letteratura all’Università di Torino. Significa dare voce
agli insegnanti facendoli parlare del loro paesaggio interno ed esterno legato
alla pratica educativa. Quindi fare emergere la loro individualità, i loro
atteggiamenti, le loro visioni del mondo, i loro valori, la loro idea di
educazione e di formazione. Negli anni mi sono reso conto di quanto il loro
mondo interno entri in comunicazione più o meno inconscia con il mondo interno
dei ragazzi con cui lavorano. Conoscere il loro modo di intendere la scuola ma
anche la vita permette loro di fare una grande esperienza di libertà, libera la
creatività e l’immaginazione e apre strade impensate e impensabili. La
metodologia della psicologia del paesaggio infatti non prevede una
progettazione ex ante dell’intervento formativo: la progettazione avviene
sempre in itinere. La scuola è satura di progetti calati dall’alto (anche
bellissimi intendiamoci) ma che non hanno attinenza con la realtà di quella
scuola, di quegli insegnanti, di quei ragazzi. Ho visto negli anni, nelle
scuole in cui ho lavorato, un fiorire di progetti, di inziative (spettacoli,
restauro di sentieri, living theatre, pubblicazione di testi, realizzazione di
documentari) nati dalla creatività degli insegnanti. Una creatività che se
liberata attraverso la narrazione dà speranza e aiuta ad affrontare il duro
compito di educare.
AL – Per quello che ci stai raccontando Ezio, i tuoi progetti escono da uno
stereotipo consolidato dello psicologo in ambito scolastico, ovvero si esce
dalla più classica modalità dello “sportello di ascolto”. Per quella che è la
tua esperienza, quali sono gli interventi in ambito scolastico che tu proponi,
su quali temi, con quali modalità, con quali obiettivi?
AM – Nella mia esperienza professionale di psicologo a scuola mi sono reso conto
gradatamente dell’importanza di lavorare con il gruppo degli insegnanti e con
il gruppo – classe allievi. Lo sportello di ascolto inteso come spazio per i
colloqui individuali nel mio modo di lavorare non rende.
Dare un “ascolto agli insegnanti” e un “ascolto alla classe” invece rende
moltissimo. Da un lato perchè quello che io propongo dopo un breve periodo di
diagnosi del clima di classe è un intervento di dialogo con la classe intera.
Ed è la classe che di volta in volta e di anno in anno propone il tema e i
temi. Che solitamente sono molto diversi da quelli che io ho in testa. E quando
loro (i ragazzi) propongono il tema c’è da rimanere meravigliati. La cosa molto
interessante è che spesso i temi proposti dai ragazzi sono molto vicini a
interessi, valori e punti di vista dei docenti e allora si può condividere.
Mescolare. Dialogare. Tra adulti e ragazzi. Da questo metodo nascono ogni anno
progetti. Mi viene in mente una classe (di meccanici, 16/17 anni, solo maschi,
molto duri) che propongono di parlare di sostanze. E io e la professoressa accettiamo.
Andiamo insieme in una comunità di recupero per tossicodipendenti, vediamo alcuni film, fanno dei temi e poi ecco sbucare il professore di matematica, musicista, che propone di fare un Programma Radiofonico gestito interamente dai ragazzi. Si chiamava Radiotrebi, Ho ancora la registrazione. Ragazzi (studenti) e adulti
(professori) che discutono, senza rete, sulle dipendenze. Entusiasmante. Accade
molto spesso che se parlano i ragazzi e “vengono fuori” scopri i loro talenti:
un rapper, un writer, un poeta… Poi accade che (l’anno scorso) un
giornalista scrive un articolaccio sulla scuola in cui ero consulente
psicologo. I ragazzi lo leggono e lo discutono in classe con i professori, che
ne avevano già discusso in un piccolo gruppo e uno di loro scrive un testo rap
di risposta. E allora nasce un cd con vari pezzi rap e viene presentato dagli
insegnanti alla comunità e al territorio. Potrei andare avanti con vari esempi,
ma l’obiettivo del metodo narrativo applicato a scuola con insegnanti e ragazzi
è fare venire fuori e valorizzare quel che c’è. In un’ottica di empowerment
scolastico ma anche per fare venire fuori l’anima delle classi e del gruppo
docente. Per innovare, per sperimentare, per stare bene a scuola insieme.
AL – L’unione e la confluenza di linguaggi, l’eterogeneità di strumenti e percorsi, la creatività che nasce dallo stare in ascolto dei ragazzi e insegnanti. Questo mi sembra il tuo modo di lavorare nel contesto scuola. Quali sono le difficoltà maggiori che hai incontrato nel tuo percorso professionale?
EM – In realtà la più grande difficoltà che ho incontrato nel mio percorso professionale è stata quella di adeguare la mia “forma mentis” al contesto che mi ha sempre richiesto di considerarmi libero professionista. Io non avevo in testa questo abito. Ho sempre immaginato di dover diventare dipendente. Anche per la mia storia familiare in cui la libera professione non è mai stata considerata comeun reale settore lavorativo. Ci sono voluti anni a assumere questo habitus. E a volte faccio fatica ancora ora. In realtà mi rendo conto che non è solo un vincolo ma una ricchezza essere liberi. Si può sperimentare di più e si possono cambiare i contesti. Puoi essere anche “tagliato” da certi contesti ma la competenza rimane e si può ricominciare da un’altra parte. Basta avere un metodo ben chiaro e che appassioni, una testa che funzioni, ci si metta sempre in discussione, si abbiano dei bravi supervisori e un’analisi personale che funzioni davvero.
AL Parlaci del tuo libro: di cosa parla? come è nato?
EM – Nostrestorie, dialogo a quattro voci sull’educazione è un libro “corale”, un epistolario via mail, scritto da me e da tre formatrici di un importante ente di formazione professionale torinese. E’ un libro che non è nato per diventare un testo. E’ nato invece dalla sollecitazione di una formatrice che ha proposto all’interno di un gruppo di supervisione per insegnanti (che all’epoca conducevo) di iniziare a scrivere, via mail, ciò che accadeva entrando e uscendo da in classe. E l’ha proposto a me come psicologo e alle colleghe formatrici. E ha inviato la prima mail che aveva come oggetto “Nostrestorie”. E così siamo andati avanti per 17 mesi. Con email quasi giornaliere. Istantanee narrative del qui e ora di ciò che accadeva in classe e dentro ognuno di noi. Un’esperienza appassionante che ci ha coinvolti tutti e quattro per quasi due anni. E questo ha cementato e saldato il nostro gruppo e successivamente ha contagiato altri docenti, formatori, operatori sociali, politici locali. Il testo è stato pubblicato, su idea di Carla Gallo Barbisio e con l’editing di Carlo Quaranta, psicoterapeuta e insegnante, dalla casa Editrice Narrative Studies nel 2011. Ma ancora oggi siamo impegnati in presentazioni in tante biblioteche del territorio e dal libro sono nati i Laboratori Nostrestorie, eventi formativi per insegnanti e genitori di adolescenti che partono dallo stimolo del libro. E da Nostrestorie è tratto Nostrisguardi: un’idea di un regista professionista che ci ha proposto un doc video sugli adolescenti e che parla del metodo narrativo. Il doc video ha come protagonisti cinque ragazzi – studenti, tre insegnanti e uno psicologo. Lo presenteremo pubblicamente a dicembre. E poi si vedrà. Questa è la magia della narrazione.
AL Visto che ti occupi di “storie” e narrazioni, quali altre storie hai intenzione di raccontare nel tuo futuro di psicologo?
EM – Che bella domanda! Grazie Alessandro. Ho voglia di raccogliere tante storie di ragazzi che hanno incontrato difficoltà nella loro carriera scolastica ma che poi hanno trovato la strada. Ho voglia di raccontare e condividere con gli adulti le storie di tanti ragazzi che vengono “espulsi” dalla scuola oppure neppure “visti” dagli insegnanti e che si autoespellono. Ho voglia di farlo anche perchè io stesso ho fatto l’esperienza di non essere visto a scuola. E mi ricordo molto bene quanto dolore ha provocato in me in anni cruciali della mia crescita. Ho voglia di raccogliere e rendere pubbliche e condivisibili le storie di insegnanti, di genitori, di operatori sociali che fronteggiano ogni giorno le difficoltà e trovano le risorse per risolverle. Ho voglia di raccogliere storie, tante storie così perchè sempre meno ragazzi vengano dimenticati o “dispersi” dalla scuola. E perchè chi ci mette l’anima, si spende per il futuro delle giovani generazioni venga valorizzato, messo in evidenza, perchè le buone prassi vengano diffuse, condivise e promosse.
AL – Ultima Domanda, come immagini la tua professione fra 20 anni?
AM -Tra vent’anni mi immagino a fare il mio lavoro con maggiore competenza e in un contesto internazionale. Ho la fortuna di essere genitore adottivo e per questo di conoscere la realtà di alcuni paesi extraeuropei in cui l’infanzia e l’adolescenza non possono essere troppo considerate. Perchè c’è fame, necessità di sviluppo e di crescita e poco spazio per pensare ai bisogni dei bambini. Ho in mente il lavoro di alcuni colleghi psicoterapeuti italiani e ungheresi che lavorano in Africa e Centro America. Io ho in mente il sud est Asiatico. E ho tante idee. Ma prima voglio dedicare spazio e tempo alla mia famiglia qui in Italia. Più avanti, tra vent’anni oanche prima, molto volentieri me ne andrei a raccogliere storie e costruire nuove storie possibili con tanti bambini e adolescenti che vivono in strada. Che sanno cos’è la fame. Ma che hanno bisogno – come i nostri – di essere incontrati, valorizzati, incoraggiati e “fatti ripartire”. Perchè non sono “rotti” o “limitati” ma semplicemente dimenticati!