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Negli ultimi mesi un piccolo gruppo di direttori di alcune scuole di psicoterapia si sta muovendo per affermare che gli psicoterapeuti dovrebbero avere l’esclusiva su una serie di attività della professione di psicologo.

Sono andati prima a parlare con il Presidente dell’Ente di Previdenza e Assistenza degli Psicologi (ENPAP), per avere chiarimenti riguardo al bando borse lavoro, con l’intenzione eventuale di intentare una causa legale contro l’ente se le criticità da loro evidenziate non fossero state modificate.

I componenti della delegazione, a parte uno psicologo, sono medici psichiatri ultrasessantenni.
Tradotto in pratica: medici che vanno alla cassa degli psicologi a chiedere di escludere gli psicologi stessi da un bando di lavoro.

Ma sarebbe riduttivo fermarsi qui, la questione è complessa e l’origine del problema oramai decennale.

Questi stessi medici psichiatri, a fine carriera, in quiescenza e direttori di scuole di psicoterapia, sono andati anche dal Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il CNOP.

Perché?
Per chiedere di modificare il nostro codice deontologico, allo scopo di delineare meglio i confini professionali tra psicologi e psicoterapeuti ed escludere gli psicologi senza specializzazione dal campo della psicopatologia.

Ma cosa c’è nel bando ENPAP che li ha mossi?
Il bando borse lavoro prevede di erogare interventi di supporto psicologico e psicoterapia gratuiti per la popolazione.
ENPAP mette a disposizione 5 milioni di euro per pagare i professionisti, con il duplice obiettivo di valorizzare e sostenere la professione di psicologo e avere un impatto diretto sulla popolazione che, post pandemia, vive numerose difficoltà psicologiche ed economiche.
Il bando prevede due livelli d’intervento: di primo livello, erogati da psicologi per persone con sintomi sottosoglia; di secondo livello per utenti con criteri di patologia ansiosa o depressiva, erogati da psicoterapeuti.

Questi criteri di primo e secondo livello non sono nuovi, vengono definiti già nel 2018-19 in un documento del CNOP sulla cronicità .
Inoltre tali criteri sono delineati anche nella Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità del 2021, sulle terapie per ansia e depressione. 

La critica di questa ristretta delegazione di psichiatri e psicologi è estesa: il bando non va bene, perché solo gli psicoterapeuti possono fare interventi verso la popolazione che presenta difficoltà, anche se non sono sintomi conclamati.
La divisione in interventi di primo e secondo livello li vede contrari, perché gli psicologi non dovrebbero fare nulla di clinico.

Non solo, ritengono che il codice deontologico non vada bene, perché non definisce in modo sostanziale i limiti di chi è “solo” psicologo.
Gli utenti, a detta loro, vanno tutelati dagli psicologi non psicoterapeuti. Gli psicologi non possono e non sanno fare interventi.

Balza alla mente la pessima regolamentazione che dal 1989 attraversa la professione di psicologo.
Quella di psicologo è l’unica professione in Italia che obbliga uno studente, dopo 5 anni di università, un anno di tirocinio e un esame di stato, (tra poco accorpati al percorso universitario) a dover investire altri 25mila € e altri 4 anni di formazione nelle scuole di psicoterapia private, per poter esercitare una professione, sanitaria per giunta.

Mi chiedo dove inizi il vero interesse a tutela dell’utenza da parte di questa ristretta delegazione di capi scuola, e dove invece nascano gli spettri per il rischio della fine di un’epoca per alcune lobby che da oltre 30 anni vivono di formazione e supervisioni.

In un mercato selvaggio e pieno di scuole (quasi 400 con più sedi in Italia) che al loro interno hanno orientamenti infiniti, talvolta piani di studio molto variopinti e corpi docenti (didatti si dice) a volte di provenienza più amicale che scientifica.
La formazione in psicoterapia, quando avviene in scuole serie, ha un enorme valore clinico e sanitario, fondamentale per la collettività.
Ma rimangono grandi zone d’ombra che favoriscono l’esistenza di situazioni che non sono in grado di garantire standard di formazione sufficienti.

Mi chiedo se la lotta di questa piccola delegazione di medici e direttori di scuole di psicoterapia, per restringere il più possibile il campo d’azione degli psicologi, a favore degli psicoterapeuti, sia realistica e tenga conto di tutto il contesto, dei limiti del sistema formativo, oppure no.

Perché le battaglie professionali fatte da chi appartiene ad un’altra professione ed è alla fine della sua carriera, vanno decisamente attenzionate.
Mi torna inoltre alla mente un articolo del Sole24Ore, parla della generazione dei boomer che non passa il testimone e vorrebbe che il mondo rimanesse esattamente come loro lo hanno pensato, costruito, vissuto nei decenni scorsi. Sarà questo un caso del genere? Le decine di migliaia di psicologi non psicoterapeuti (circa 60mila!) che in questi decenni sono usciti dalle università e che vivono con redditi medio bassi, quale futuro lavorativo hanno nella mente di medici ultrasessantacinquenni?
Creare muri all’interno della stessa categoria professionale quale visione politica, sanitaria, economica può avere nel lungo periodo, se portata avanti da chi vuole barricate invece che riforme?

Tutte le forme di psicologia che intervengono sul disagio, come lo psicologo di base, lo psicologo scolastico e lo psicologo dell’emergenza, che valore assumono in una protesta che vuole bloccare l’agire dello psicologo?

Oggi quello che serve è un cambiamento legislativo che attraversi profondamente il mondo della psicologia, partendo dai percorsi formativi universitari, ai percorsi post-laurea e delle scuole di psicoterapia, servono riforme sostanziali, coraggiose e al passo con i tempi.
La psicologia italiana ha bisogno di una rivoluzione funzionale, per le decine di migliaia di professionisti psicologi, psicoterapeuti e non, e per quelli che verranno in futuro.
Rivoluzione gestita dagli stessi psicologi, che riconosca a ciascuno – psicologi e psicoterapeuti – il proprio valore e senza le ingerenze politiche di un’altra categoria professionale.