Siamo Lemmings?
Il tema della numerosità degli psicologi mi interessa da anni: ricordo quando, nel 2003, condivisi le prime proiezioni sui numeri della professione. Segnalavo che saremmo stati “48.000 a breve”, e “quasi 120.000 nel 2020” (la proiezione venne accolta con totale incredulità).
Oggi, gli psicologi italiani sono circa 105.000, con crescita media annua di circa 4/6.000 unità; il trend porta a stimarne circa 115/120.000 nel 2020, e circa 170.000 nel 2030.
“Generazione 170.000” sarà una categoria professionale composta, per quasi la metà, da persone attualmente all’inizio delle scuole superiori.
Siamo troppi?
Secondo molti, sì; anche tenendo conto che di questi 105.000 hanno un reddito professionale (iscritti ENPAP) in circa 60.000. Le responsabilità di questa dinamica demografica, sviluppatasi in maniera disordinata, sono di volta in volta attribuite ai più diversi “colpevoli”.
“E’ tutta colpa delle Università!”, dice uno.
“No, sono le Scuole!”, risponde l’altro.
“No, è il CNOP che non ha programmato! Siamo Lemmings che corrono verso l’Abisso!”, commenta il terzo.
Ma ogni preoccupazione relativa ad un processo complesso e multifattoriale, porta con sè il desiderio di “Soluzioni da Draghi”: semplici, magiche e rassicuranti.
E quindi, pericolose.
Soluzioni semplici. E illusorie.
Ma se affrontare il problema non è più procrastinabile, le soluzioni semplici sono illusorie; e quelle funzionanti ci porteranno forse fuori dalla nostra “Comfort Zone”. In altri termini: “Non sarà mai più Business as Usual”.
Prima considerazione: il Ruolo della Domanda.
Si deve partire dalla Domanda: ovvero, le molte migliaia di giovani che ogni anno “sentono il bisogno di diventare psicologi”.
Tale energico e costante flusso in ingresso al sistema della psicologia italiana ha alimentato una forte “Offerta” (Università, Scuole, SSN, etc.). Analizzare il processo senza tenere presente che “la Domanda viene prima di tutto”, e che è spesso un fiume incontenibile che cerca ogni modo per arrivare a valle, è riduttivo.
Nessuno ci ha obbligato a fare psicologia, e nessuno “ci deve” garantire un lavoro solo perchè abbiamo studiato psicologia. In altri termini: “Non è che sei imbottigliato nel traffico: sei proprio tu, il traffico” (e, scrivendo questo, ho appena perso metà dei miei amici!).
Seconda considerazione: un Ecosistema ormai consolidato.
Domanda e Offerta sono inestricabilmente interconnesse. Il problema è quindi affrontabile solo se usiamo un’ottica di “Ecosistema”; altrimenti, caschiamo nella seduttiva trappola concettuale che esista un semplice “pulsante isolato” che se premuto possa sistemare magicamente tutto. Non c’è; o quanto meno non c’è più da decenni.
Quali sono i protagonisti?
1. I primi protagonisti sono i giovani aspiranti psicologi (mossi da un “Desiderio” non sempre mediabile razionalmente, perchè per molti “voler fare Psicologia” è una ricerca identitaria dal ricco significato personale). Sono come la sabbia che scorre vorticosa; ed anche se stringi il pugno dei vincoli, la Domanda cerca di raggiungere il suo obbiettivo scivolando in ogni pertugio.
2. Vengono poi le Università, che aldilà della Vulgata che le vuole onnipotenti e indifferenti, sono in realtà il perno della ricerca e della formazione psicologica, con “mandati istituzionali” che devono essere molto più vasti (ricerca, didattica, terzo ruolo) della sola “formazione di professionisti”. Coinvolte negli ultimi anni dai forti cambiamenti organizzativi, vivono una complessa situazione di vincoli legati a valutazioni di qualità, riduzione dei finanziamenti, programmazione dei percorsi di laurea, numerosità degli studenti (legate a “classi” determinate normativamente), opportunità di incremento del numero di laureati italiani (siamo agli ultimi posti europei).
In questa complessità, non sono certo le Università che creano la Domanda: alle Fiere dell’Orientamento in tutta Italia, i docenti di Psicologia sono solitamente i più “assediati” da centinaia di ragazzi che vogliono iscriversi a tutti i costi.
“Delegare” alle Università la responsabilità di determinare le politiche di accesso al mondo professionale è riduttivo e fuorviante. Necessitiamo anzi oggi più che mai di Università “forti”, che costituiscano il volano scientifico-economico della ricerca di base ed applicata della Psicologia italiana.
3. Le Scuole di specializzazione hanno certamente interesse nel mantenere la “Domanda”, ma a loro volta svolgono una funzione ineludibile per la categoria: ne sono il “moltiplicatore di competenze professionali”. Molte di queste, cresciute anch’esse in maniera significativa (oltre 300), negli ultimi anni hanno sentito fortemente la Crisi economica.
Questo è un problema per tutti se ad avere difficoltà sono le Scuole di qualità, che trasmettono gli standard scientifici, formativi e deontologici più rigorosi.
Al contempo, altre Scuole sembrano avere scarsa “Vision di Sistema”: fanno poca rete italiana e internazionale, fanno scarsa ricerca, e navigano a vista tra rigide normative ministeriali e riduzione delle risorse economiche. In alcuni casi, formano purtroppo anche counsellor.
Ma, anche qui: non sono certo le Scuole che spingono migliaia di giovani diciannovenni a mettersi in fila per sgomitare pur di entrare nel sistema della psicologia italiana.
4. Arriviamo al SSN, che in parecchie realtà si basa sempre più spesso su “forme strutturali di precariato”. Il numero di Psicologi Dirigenti nel SSN è fermo da anni (6.000 circa, più o meno come 15 anni fa quando gli psicologi erano circa 40.000), e nei prossimi 10-15 anni si prevedono raffiche di pensionamenti nel Pubblico (l’età media è altissima).
I colleghi strutturati del SSN hanno costruito la professione e la presidiano in prima linea, rispondendo ai bisogni di salute dei cittadini italiani. Ma un sempre maggior numero di Servizi funziona grazie al continuo apporto di “psicologi precari”, un flusso costante di forza-lavoro “a basso costo” (collaboratori, contrattisti eterni, Sumaisti, borsisti post-tutto, etc.).
Da questo punto di vista, il SSN ha per la categoria un doppio ruolo: per mantenere molti Servizi ai cittadini necessita di afflussi costanti di psicologi, che al contempo forma e professionalizza; ma non riesce a strutturarli a sufficienza.
Abbiamo quindi bisogno di un Sindacato dei Dirigenti che prioritizzi energicamente la strutturazione nel SSN di una nuova generazione di migliaia di psicologi precari del SSN: è questa una sfida cruciale per tantissimi colleghi, e per la sopravvivenza nel medio-lungo termine della Psicologia Pubblica, prima che i prossimi pensionamenti di massa senza turn-over facciano precipitare la situazione in molti contesti.
In sintesi (si fa per dire): Il sistema tende a compensarsi in un equilibrio precario, che garantisce per ora due obbiettivi (la continuità funzionale degli stakeholders, e la “realizzazione del desiderio” dei giovani), ma a scapito di altri due: il reddito medio e la piena occupabilità della categoria.
Le soluzione che NON risolvono il problema.
Delineati gli attori, vediamo le proposte che NON risolvono il problema. Sono quelle espresse con la logica di un Drago, che ritiene che una semplice fiammata risolva problemi complicati. Ma anche le Fiabe ci insegnano che non funziona esattamente così.
1. Limitare draconianamente gli accessi alle Università pubbliche (“Non fate entrare più nessuno per dieci anni!”).
Sicuramente una programmazione generale degli accessi sarebbe utile per contenere certe situazioni “limitless”. L’esito complessivo, però, sarebbe ormai probabilmente poco utile, se non paradossale.
L’effetto prevedibile sarebbe infatti quello di rinforzare certi trend già visibili sul mercato, ridirezionando ogni anno migliaia di “esclusi” verso una pletora di “alternative formative” che si creerebbero rapidamente (percorsi esteri organizzati, corsi interclasse senza limiti numerici in realtà private, etc.), di qualità formativa probabilmente inferiore a quella di molti Atenei di ampia tradizione psicologica.
Le “soluzioni creative”, trovate in parte già oggi da chi vuole assolutamente diventare psicologo, incontrerebbero sicuramente nuove “offerte” commerciali davanti a ulteriori limitazioni pubbliche. In ogni caso, avremmo comunque un flusso di laureati ancora molto consistente: se fosse anche quasi dimezzato, nel 2030 ci sarebbero “solo” 150.000 psicologi invece che 170.000.
Il tutto, però, con percorsi formativi dai costi personali più elevati fin dall’inizio, e il forte rischio di minore qualità formativa e scarsi controlli pubblici sul processo.
2. EDS ultraselettivo (“Ai miei tempi, signora mia, saltavamo il DSM per il lungo!”).
Ci sono scarsi strumenti funzionali o normativi per attuarlo; ma, anche se fosse realizzabile, il semplice ritardare di un paio di sessioni il superamento dell’EdS non cambierebbe i profili numerici strutturali della categoria.
Una sua riforma in senso ulteriormente professionalizzante è sicuramente auspicabile, ma non è questa la “valvola cruciale” che interviene significativamente sulla domanda iniziale o sul posizionamento di mercato degli psicologi.
3. Orientamento alle Superiori (“Facciamogli vedere cosa li aspetta, cambieranno idea!”).
Concetto fondamentale e da rinforzare, ma in ottica numerica serve a poco. Molti Atenei fanno da anni azione di comunicazione sul mercato della professione; i dati occupazionali sono ottenibili con un click; la complessità del mercato psicologico è ben nota.
Avete mai sentito il dialogo: “Mamma, che devo fare?” “Amore, lascia stare Ingegneria: iscriviti a Psicologia che trovi lavoro più facilmente”?
Eppure, davanti a diciannovenni presi dal Sacro Fuoco di Diventare Psicologi, gli esiti di questi interventi “informativi” sono minimali.
Il pensiero tipico è: “Ma che dicono questi? Intanto, Psicologia la faccio perchè ci sono tagliato, e poi vedrò in qualche modo; meglio fare quello che mi piace, che andare a fare altro”.
La fine delle SOLUZIONI SEMPLICI.
Nè Lemmings, nè Draghi: la fine del Business as Usual. Sia Lemmings che Draghi proiettano nel futuro lo stesso modello di professione che hanno adesso; con le stesse logiche, gli stessi ruoli e le stesse dinamiche che consideriamo “normali” oggi.
Dobbiamo invece espandere radicalmente i modelli, i ruoli, gli ambiti applicativi in cui si spenderanno gli psicologi della “Generazione 170.000”.
Un set di POSSIBILI SOLUZIONI REALISTICHE.
Non abbiamo la bacchetta magica in mano. Sia chiaro. Ma queste sono alcune possibili soluzioni.
Non serve La SOLUZIONE UNICA, ma un “Combinato Disposto” di azioni che intervengano in più momenti del “ciclo di vita professionale”:
1. Riduzione, per quanto possibile, degli ingressi, il flusso “wild”: (orientamento proattivo in ingresso, numeri programmati ragionevolmente coordinati a livello nazionale, ostacolo diretto e indiretto alle “iniziative alternative a libero accesso selvaggio”, etc.).
2. Professionalizzazione formativa accademica: le Università dovranno sempre più cogliere le sfide di una didattica di alto livello, di Manifesti degli studi innovativi e co-pensati anche assieme alle Istituzioni della professione, dell’investimento sulla ricerca applicata a temi di forte interesse pubblico e con ricadute sulle prassi professionali.
3. Professionalizzazione formativa post-lauream: ENPAP ed Ordini devono svolgere un ruolo radicale di spinta innovativa nel “redesign” della Professione, e nel sostenere energicamente i colleghi nel rielaborare il proprio “ruolo”, anche in terreni molto diversi dagli abituali; oltre che sostenere l’acquisizione di competenze imprenditoriali, di marketing, di start-up professionale, ormai basilari per ogni professionista.
4. Aggiornamento formativo delle Specializzazioni: avremo sempre più bisogno non solo di formare “Psicoterapeuti”, ma dovremo allargarci per formare nel post-lauream “Specialisti di azioni complesse”, capaci di muoversi in contesti molto differenti (aziende, organizzazioni, analisi e ricerca), sui nuovi media e canali, etc.
Le Scuole, su questa capacità di Innovazione giocano il loro futuro e parte del futuro della categoria. Devono purtroppo navigare negli stretti vincoli imposti dai programmi ministeriali: una riprogettazione delle esperienze formative richiederà forte coinvolgimento delle Scuole, e gioco di squadra con il MIUR.
5. Sviluppo aggressivo del Mercato: cruciale sarà l’ampliamento, ridefinizione strutturale e fortissima diversificazione della professione e delle sue applicazioni, esplorando ambiti e ruoli molto diversi per i nostri laureati; l’energica Innovazione delle prassi e dei modi in cui ci poniamo sul mercato professionale; il sostegno ai SIB (Social Impact Bond); una lobbying costante ed intelligente a livello di Enti locali e Istituzioni, per affermare in maniera estremamente determinata il “valore aggiunto” della psicologia per i loro processi.
IN CONCLUSIONE (finalmente)
Siamo 105.000, ed anche con forme di limitazione degli accessi saremo 150/170.000 fra pochi anni.
Quindi adesso, e non fra 10 anni, ci serve un “Paradigm Shift” della psicologia professionale.
E’ il punto chiave, che comporta una ristrutturazione radicale dell’equazione illusoria: “Laurea in Psicologia” = “Sono Psicologo” = “Apro lo Studio e aspetto pazienti”, che è destinata ad essere sempre più marginale.
Serve veramente un progetto di largo respiro per il completo redesign della Psicologia italiana e dei suoi orizzonti strategici.
Serve una profonda concertazione tra i diversi stakeholders, in cui tutte le Istituzioni e le “parti sociali” della professione si assumano una responsabilità energica e coordinata, in cui ciascuno è chiamato ad uscire dalla propria zona di comfort, dal proprio “Business as Usual sperando che a dover cambiare siano solo gli altri”.
Stimolare e sostenere un progetto evolutivo del genere sarebbe la “sfida finale” per AltraPsicologia. Noi, ci siamo.
Del resto, per noi e per la “Generazione 170.000” non vi è alternativa che provarci.
A parte il fatto che mi sento identitariamente offeso e punto sul vivo dal tuo accostare la definizione di “soluzioni da Draghi” alle soluzioni magiche e inconsistenti, trovo le tue analisi sempre puntuali, costruttive e sapientemente provocatorie. E in questo periodo che vado inventandomi cose, ne sento il bisogno. Chiudiamo bene questo 2017 e poi pronti in trincea per il prossimo anno! Un saluto affettuoso
Ahahah, Riccardo, hai ragione 🙂 La prossima volta citerò il brand 😉
Grazie mille, ed un salutone a te!
Bell’articolo, indubbiamente.
Purtroppo la realtà presenta un elemento cruciale che mi pare sia sfuggito: alla stragrande maggioranza delle persone e delle aziende, che sono composte da persone, manca la cultura del “rivolgersi allo psicologo”.
Non gli passa neanche per l’anticamera del cervello; anzi, casomai passa la convinzione opposta, poiché comunemente si ritiene che per risolvere certe faccende ognuno debba essere in grado di farcela da sé.
In molti casi, addirittura manco sanno chi sia lo psicologo e che cosa faccia, in barba alle professionalizzazioni di più alto livello.
In molti altri casi e specialmente nelle aziende, le mansioni che potrebbero essere svolte dallo psicologo vengono svolte da altre figure professionali, alla faccia della tanto decantata iscrizione all’albo.
Penso che tutto ciò sia uno dei talloni di Achille della categoria degli psicologi.
Un altro è senza dubbio la lucrosa svendita della professione da parte di certi membri della categoria, ad esempio tramite la formazione di concorrenti di livello inferiore come i counselor.
Un altro ancora è costituito dal modo di intendere i diversi orientamenti teorici che talvolta ricorda un po’ il fanatismo religioso e che crea divisioni che non giovano affatto alla categoria.
Inoltre, le istituzioni dimostrano di essere apparati ottusi, lenti, inefficienti e piuttosto lontani da una certa modernità di pensiero e di impostazione.
Non mi è chiaro, quindi, come sia possibile realizzare il “progetto di largo respiro” menzionato nell’articolo.
Ciao, concordo: le sfide che abbiamo davanti nei prossimi 10/15 anni sono imponenti e complesse.
D’altronde, non abbiamo alternativa possibile che accettarle e giocarle al massimo della nostra energia, lucidità e impegno strategico 🙂
Sulle Istituzioni, credo che “buone Istituzioni professionali” possano fare tanto per affrontare alcuni di questi punti: penso all’azione di radicale rinnovamento fatta con ENPAP in pochissimi anni, quando finalmente vi è stato un mandato della comunità professionale in tal senso, ed un chiaro “disegno” da realizzare con determinazione. Idem per alcuni Ordini, che hanno cambiato oggettivamente, con un grande lavoro visibile e meno visibile, il modo di rapportarsi internamente ed esternamente alla categoria (Piemonte, Lazio, Marche…).
Rimane la sfida più importante e delicata di tutte, a mio parere: quella di ciascuno di noi. Che parte a volte dal provare a ristrutturare alcuni “locus of control esterni”, e ri-partire dall’idea che possiamo affermare e declinare il nostro “valore aggiunto professionale” in molti contesti, se abbiamo la lucidità, l’entusiasmo e il coordinamento per farlo.
Questa è LA sfida aperta, e se riusciremo a realizzarla lo sapremo fra qualche anno… 🙂
D’accordo ma non mi è ancora chiaro COME, ovvero IN CHE MODO si potrebbe realizzare tale progetto.
La categoria è già svantaggiata di per sé per le ragioni sopra citate, mentre certi cambiamenti ci vorrebbero fin da SUBITO e non tra 10/15 anni.
Perciò, COME cambiare la mentalità della gente e COME eliminare i focolai di tumore (mercato della formazione e presenza di caste negli COSTOSI ordini in primis) che affliggono la categoria?
Passo la palla, buone Feste.
Guarda, la tua è un’analisi molto accurata, credo che per trovare una soluzione dobbiamo guardare altro. Possiamo pensare a molte proposte su come impiegare gli psicologi, ma tutto rimarrà astratto se non si fa un lavoro sull’allargare il numero di persone che si rivolge a uno psicologo. Io credo che ci sia una domanda di psicologia nella cittadinanza che non viene soddisfatta, e la colpa è degli psicologi.
Purtroppo la psicologia molte volte è vista come qualcosa “a cui credere” (“No ma io ci credo alla psicologia!”) quando stiamo parlando di una attività fortemente connotata scientificamente. Ovvio, ci sono scuole di pensiero, ma anche se vai da due commercialisti diversi ti dicono due cose diverse! Non è questo il problema,
Il problema è che troppe volte si sente raccontare della moglie dell’amico del cugino che è in psicoterapia da venti anni (!) due volte a settimana, del genitore che ha portato il figlio in terapia e “non so cosa ha fatto, hanno giocato”, della psicologa che sta zitta tutta la seduta e via dicendo. Con queste premesse, è chiaro che la gente non accede ai servizi psicologici. Io quando vado dal medico ho un’idea chiara di quello che succederà, un paziente dello psicologo troppe volte no.
AltraPsicologia, l’Ordine, e tutte le varie associazioni dovrebbero fare un lavoro serio per allargare la base delle persone che “vanno dallo psicologo” e dovrebbero fare un lavoro altrettanto serio con gli psicologi per dare delle linee guida comuni, al di là dell’orientamento, per evitare questi fenomeni che gettano una luce ridicola sulla nostra professione.
Ci sono ad esempio persone che sono ansiose e non sanno di esserlo, non sanno che possono risolvere o ridimensionare la loro ansia, non sanno che lo psicologo si occupa (anche) di questo.
Così come chi ha paura dei cani o degli insetti se la tiene per tutta la vita, senza sapere che potrebbe cambiare la propria vita se svolgesse un certo numero di sedute con lo psicoterapeuta.
C’è una tendenza generale a cercare soluzioni farmacologiche che non richiedono riflessioni approfondite.
Questo clima è, a mio avviso, lo scoglio insormontabile.