Il tirocinio professionalizzante è uno dei temi di discussione da sempre “caldi” nel mondo degli psicologi: mi inserisco nella discussione perché l’argomento mi sta a cuore, ma premetto che sono cosciente di avere un punto di vista estremamente particolare.
Mi sono laureato a Padova in psicologia del lavoro, sono uscito dalla facoltà, ho guardato a destra e a sinistra come quando si attraversa la strada: non ho visto niente di interessante, e ho ricominciato da zero.
Oggi ho un asilo nido accreditato dalla Regione Veneto, un servizio di doposcuola specializzato nei DSA (in collaborazione con una splendida cooperativa di Padova) e sto lavorando per realizzare un’agenzia che si occupa di assistenza domiciliare a malati e anziani.
Come psicologo e imprenditore ho accolto una decina di tirocinanti, sia al nido che nel doposcuola: alcuni casi sono stati esemplari, tant’è che poi hanno iniziato a lavorare con me. Altri tirocinanti hanno avuto serie difficoltà nell’inserimento lavorativo.
Mi spiego con semplicità: questi ragazzi erano presenti fisicamente ma, come in classe durante una lezione pallosa ma obbligatoria, non c’erano con la testa. Aspettavano che passasse il tempo e ad ogni richiesta da parte dei colleghi diventavano stuporosi. Questa è sinteticamente la difficoltà, poi chiaramente ogni persona e ogni episodio sono storia a sé.
Mi preme mettere in luce qualcosa che spesso viene negato: una parte non esigua degli studenti e aspiranti professionisti sembra del tutto incapace di entrare nel mondo del lavoro, a prescindere dall’ambito. La mia impressione è che non sia un problema innato ma acquisito: alcuni semplicemente stanno percorrendo una strada che non è la loro, ma è talmente facile laurearsi che intanto lo si fa, e poi si vedrà (questo è il mio caso, ad esempio).
Alcuni tirocinanti sono da tempo abituati all’idea che tutto è un diritto, tutto è dovuto, e hanno vissuto l’università come una via di Pamplona, stretta e senza via di fuga: tu stai in mezzo agli altri e quando gli altri corrono corri anche tu. Non serve pensare, capire, decidere.
Poi arrivano nell’impresa e io mi aspetto di avere davanti un uomo – o una donna – propriamente detti: con la sua cultura, certo, ma anche le sue idee, le sue esperienze, i suoi gusti. E invece ho – anzi, abbiamo, perché ne ho parlato a lungo con diverse persone e spessissimo concordavamo – una placida mucca indiana, uno che mi guarda e si aspetta che io lo metta in una situazione di lavoro facile e simpatica almeno quanto un viaggio in treno con gli amici, o un quarto d’ora su facebook. Chiaramente non è così: qui – nell’impresa – ‘ci si fa il culo’ tutti, tutti i giorni.
Probabilmente sono uscito dal seminato, e rileggendo gli esempi e le esperienze portate da altri psicologi, capisco che i tirocini fatti in un asilo o in un servizio per DSA non sono paragonabili a quelli fatti – ad esempio- all’ASL.
Ma non possiamo dimenticare che sono esperienze di vita volontarie, fatte per imparare sul campo, nessuno obbliga un tirocinante a fare un tirocinio.
Eppure mi dispiace: c’è un filone d’oro in ogni tirocinio: è un periodo irripetibile, in cui puoi metterti alla prova – da adulto – senza sentirti uno scemo. Puoi chiedere aiuto, farti spiegare e rispiegare, senza che questo intacchi la tua autostima.
E in ogni persona che fa un lavoro con competenza e piacere di solito c’è una gran voglia di condividere la propria esperienza e trasferirla agli altri, è un modo accettabile di dare sfogo alla soddisfazione per quello che si è riusciti a fare.
Un tirocinante intelligente può imparare tantissimo. Si tratta di far incontrare domanda e offerta.
Gentile Francesco, grazie per l’articolo, che offre un punto di vista insolito (ma non per questo meno prezioso) sulla vexata quaestio dei tirocini. Personalmente, il mio tirocinio presso un’ASL (Ser.T.) è stato fruttuoso, sia in termini di “apprendistato” (ho veramente imparato qualcosa che la sola università non avrebbe mai potuto darmi) sia in termini di lavoro (creazione di rete con altri professionisti, partecipazione a progetti successivi). Sono stato fortunato, perché nessuno mi ha chiesto di fare fotocopie o di comportarmi come una “mucca indiana” (da altre parti, è invece questa la richiesta); anzi, mi è stato chiesto di essere professionale. Sono probabilmente stati fortunati anche i miei responsabili di servizio, anche perché grazie all’apporto di un tirocinante hanno potuto ampliare l’offerta all’utenza (nello specifico, un gruppo per familiari di giocatori d’azzardo). Però, sparito il tirocinante, sparito il servizio, a meno che questi non desideri continuare in regime di “lavoro volontario”. Non ne faccio una colpa all’ASL, che in quanto a risorse economiche non è messa bene. La mia è semplicemente una constatazione. Il lavoro dei tirocinanti (che come lei ricorda, non sono tutti “imbambolati”, anzi…ve ne sono di veramente professionali) è una manna per i servizi (pubblici o meno che siano) perché offrono lavoro a costo zero. In alcuni servizi (come quelli da lei avviati) c’è una mentalità imprenditoriale per cui il tirocinio può essere un periodo di prova e formazione in cui l’azienda “coltiva” delle risorse, e questo è ottimo. Ma non è sempre così. E il tirocinio, su questo la correggo, è obbligatorio. I tirocinanti sono obbligati a fare il tirocinio, altrimenti niente titolo. Direi, giustamente, giacché un serio periodo di “lavoro sul campo”, soprattutto nella nostra professione, è assolutamente necessario. Ora, il problema è forse più complesso di come posto da lei; è forse utile pensare di ristrutturare la forma dei tirocini, di formare i tutor, di applicare modelli di valutazione del tirocinio un po’ più complessi ed affidabili che non la sola opinione del tutor (permettendo quindi ai tirocinanti di prendere visione del proprio percorso). E forse di riconoscere economicamente il periodo di lavoro, perché è di questo che si tratta (non è volontariato né hobby). Scartati i molti tirocinanti che sono lì perché “tanto poi si vedrà”, ve ne sono moltissimi altri che invece investirebbero di più sul lavoro se solo non avessero la certezza di essere in un cul de sac, al termine del quale saranno rimpiazzati da altra manovalanza destinata alla stessa “non carriera”.
Concordo!
Grazie Ronnie Bonomelli per il suo commento. Ma confermo quello che ho scritto nell’articolo: il tirocinio non è obbligatorio. Così come non è obbligatorio laurearsi o iscriversi all’albo: nessuno ti obbliga, sei tu che lo fai perché lo desideri. E la differenza è abissale, perché quando cerco un posto dove fare il tirocinio, sono io che mi devo dar da fare, io devo valutare se investire un anno della mia vita in quella specifica struttura è quello che voglio o meno, sta a me cercare di trarre il maggior profitto dalle esperienze che faccio. E in questo senso, non è un problema del tutor se il tirocinante “si aspettava qualcos’altro”, o “sperava di poter fare (e qui la invito a inserire a piacere qualsiasi compito, anche estremamente delicato o complesso, che magari il tutor ha impiegato anni a imparare), eccetera.
Il senso profondo dell’articolo era l’esortazione a tutti i tirocinanti a diventare attivi, propositivi e in certa misura aggressivi nei confronti della vita, e molto rigidi con se stessi: mi sembra che solo a queste condizioni, oggi, si può legittimamente sperare di potersi realizzare sul lavoro, e magari essere felici.
Grazie! Davvero..
Sto frequentando il tirocinio obbligatorio di un anno per l’esame di stato presso la ASL e mi stavo convincendo di quanto poco gratificante sia questa esperienza..ma per fortuna ci sono persone che la pensano come lei. Forse sono stata poco fortunata, ma quello che sto sperimentando in questi primi tre mesi è solo frustrazione. Ci viene ricordato tutti i giorni che non siamo nulla,ma poi ci viene chiesta professionalità per fare telefonate,fotocopie, per rinunciare alle vacanze e fare relazioni dalle scadenze improponibili. La minima iniziativa,il minimo entusiasmo vengono distrutti..mi hanno
dato della “tosta” perché non ho fatto copia e incolla da una vecchia relazione,ma l’ho scritta secondo quello che credevo più corretto (senza prendere iniziative su pazienti o diagnosi,per carità:parlo di semplice impostazione stilistica!). Mi sono piegata al volere del tutor,ho messo da parte l’entusiasmo e ora eseguo i compitini sciocchi da automa/segreteria. Almeno ho smesso di essere rimproverata! È una delusione, cerco di apprendere il possibile..soprattutto cosa non fare futuro nella mia professione!
Ho letto tutti i contributi. Dove sta la verità? Io credo che ognuno di voi – dall’autore dell’articolo agli autori dei due commenti – abbia ragione, e si badi bene: non è un artificio dovuto alla conoscenza della pragmatica della comunicazione umana (concedetemi la battuta)!
Per quello che è stata la mia esperienza – e ho avuto modo di fare diversi tirocini tra i pre-laurea e i post e quelli relativi ai master, più lunghi anni di volontariato – è pieno di mucche indiane, sia tra i tirocinanti che tra i tutor, però. Sono pochi i casi in cui si incontra gente dotata di pensiero proprio ed entusiasmo, e competenza professionale – vogliamo chiamarla intelligenza? Su questo punto non saprei, forse sarebbe più opportuno parlare di motivazione, perché ognuno ha da qualche parte di sé un talento da coltivare, ma non è semplice scovarlo nel sistema di istruzione italiano – meramente nozionistico e, in ambito accademico, contraddittorio (mi riferisco ai piani di studio fatti, spesso, sulla base dell’esigenza della singola facoltà e dei baroncelli da inserire), incongruo rispetto alle richieste del mondo del lavoro e soprattutto quando non mediocre, fortemente autoreferenziale. E’ inutile che ci nascondiamo dietro a un dito, l’università italiana è di basso livello, basta guardare obiettivamente le classifiche mondiali.
Ma, è pur vero che ci sono le persone (in quantità inferiore), che scelgono un indirizzo di studi e lo portano avanti con passione e la giusta umiltà necessaria per formarsi in un ambito così complesso e, per cui – a mio avviso – necessitano determinate capacità, a partire dalla capacità di mettersi in discussione e dall’empatia, la cui carenza è fatale per la realizzazione professionale in quest’ambito (stesso dicasi per la massa di psicoterapeuti incapaci che si comprano il titolo senza avere le giuste capacità e la giusta umiltà).
A cosa dobbiamo questo proliferare di “mucche indiane”? Io credo che sia implicata la serpe strisciante della subcultura italiana, basata sul clientelismo, il qualunquismo e il business – e la macchina della formazione si arricchisce sulle spalle di menti inconsapevoli che sono state deformate da un sistema, a più livelli.
Nel pubblico, come riportano i due colleghi, la faccenda è più complessa e la macchina dello sfruttamento è sempre in azione, a maggior ragione quando si imbatte in persone con la vocazione di apprendere la professione.
Nel privato, però, sebbene teoricamente si possano avere più opportunità – parlo di inserimento lavorativo e l’autore dell’articolo rappresenti la sua oasi – vi sono anche realtà in cui sia i tutor, che il gruppo dei tirocinanti è fatto di mucche indiane. Può capitare che un elemento divergente possa cambiare le cose, ma conosciamo tutti qui le dinamiche di gruppo. Capita anche nel privato che ci sia, laddove non si tratti di incompetenza bella e buona, una sorta di ritrosia ad insegnare “i trucchi del mestiere” – perché gli stessi privati organizzano corsi e corsetti a pagamento, e se vuoi imparare devi sganciare soldi, su soldi, su soldi.
Detto questo, credo che “il filone d’oro” sia dentro di noi e che è difficile – ma non impossibile – farlo luccicare nel sistema italiano. E provo anche empatia per tutte quelle mucche indiane che sono state cresciute da un sistema che non gli ha consentito di intravedere il filone, vuoi per i limiti del sistema stesso, vuoi perché le caratteristiche individuali incidono e qui contestualizzerei la faccenda dell’intelligenza – chi ne ha di più è resiliente si sa, ma si sa anche che chi ne ha troppa rischia l’ostracismo nel sistema italiano. E, chi non ha i fondi per mettersi in proprio, deve faticare parecchio.
In bocca al lupo a tutti, cari colleghi.