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La sentenza di cassazione n. 14408 dell’11/4/2011, cui l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna è arrivato dopo aver intentato un processo contro la dott.ssa A. G. per esercizio abusivo della professione di psicologo e attività di psicoterapeuta, rappresenta un punto fondamentale nella storia della difesa dei nostri confini professionali.

Viene, infatti, finalmente sancito che “ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p., l’esercizio dell’attività di psicoterapeuta è subordinato ad una specifica formazione professionale della durata almeno quadriennale ed all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici (all’interno dei quali è dedicato un settore speciale per gli psicoterapeuti). Ciò posto, la psicanalisi, quale quella riferibile alla condotta della ricorrente, è pur sempre una psicoterapia che si distingue dalle altre per i metodi usati per rimuovere disturbi mentali, emotivi e comportamentali. Ne consegue che non è condivisibile la tesi difensiva della ricorrente, posto che l’attività dello psicanalista non è annoverabile fra quelle libere previste dall’art. 2231 c.c. ma necessita di particolare abilitazione statale”.

Il fatto che la psicoanalisi venga ricondotta ad una forma di psicoterapia non ha, naturalmente, nulla a che vedere con i lunghi dibattiti scientifici sulle più o meno sottili differenze nelle forme di cura fra psicoterapia psicoanalitica e psicoanalisi in senso stretto (d’altra parte, anche la cognitiva-comportamentale e quella sistemica-relazionale sono due forme di psicoterapia, pur essendo molto diverse nelle applicazioni), quanto piuttosto con l’elementare diritto del cittadino di essere curato, non solo nelle sue patologie fisiche, ma anche nelle problematiche mentali e psicologiche, da persone che abbiano acquisito una corretta formazione in materia.

Perché questa risoluzione della Cassazione risulta così importante? Perché, innanzitutto, ricorda che siamo in Italia, dove vigono alcune leggi, le quali vanno rispettate, che piaccia o no. Fra queste, anche il fatto che la psicoterapia non possa svolgersi in un vuoto scientifico e normativo, bensì vada ricondotta ad alcuni parametri formativi minimi che possano dare le basi su cui strutturare un intervento tanto delicato. Naturalmente, come in tutti i paesi civili che si rispettino, tali parametri non vengono individuati arbitrariamente da ciascuno secondo il proprio desiderio, ma sono determinati da specifici e a ciò preposti organismi che definiscono un percorso di studi che permetta l’acquisizione delle competenze necessarie per poter operare in un determinato campo.

Fra gli oppositori di tale sentenza e delle sue implicazioni, si ritrovano alcune persone che sostengono che la psicoanalisi non possa essere “legata”, che verrebbe in questo modo snaturata.
Giova qui ricordare molto brevemente, a chi sottolinea come alcuni psicoanalisti non psicoterapeuti sarebbero ampiamente meritevoli e adeguatamente formati, perciò ingiustamente ostacolati da questa sentenza, l’iter che portò ad istituire l’Albo degli psicologi e l’elenco degli psicoterapeuti.
La legge 56/89 non può essere esattamente definita come un colpo di mano, un Putsch che da un giorno all’altro ha improvvisamente modificato le regole alla base del lavoro di psicologo e psicoterapeuta.
La possibilità di esercitare in campo psicologico non è scomparsa tutta d’un tratto, per cui centinaia di professionisti il 18 febbraio 1989 si sono svegliati e hanno scoperto, di punto in bianco, di non poter più svolgere il loro lavoro, non essendo in possesso dei nuovi requisiti previsti, trovandosi quindi in mezzo ad una strada e nel lastrico.
Fosse così, potremmo anche capire ed indignarci.
Ma le cose sono andate molto diversamente (basterebbe leggersi la legge negli articoli dal 32 al 35 per capire come sia stato possibile accedere ad Albo ed elenchi per chi effettivamente aveva le idonee competenze ed esperienze), soprattutto perché dopo la prima sanatoria vennero nuovamente aperti, nel ’99, con apposita legge, i termini degli artt. 34 e 35. Quindi, chi aveva conoscenze e pratiche adeguate, poté tranquillamente fare richiesta di iscrizione all’Albo in quei due periodi. E’ piuttosto vero il contrario, cioè che c’è stata a volte una “manica troppo larga” e sono entrate anche persone non così adeguatamente formate, pur di non rischiare di essere troppo ingenerosi.

Chi allora non possedeva titoli adatti, era perfettamente consapevole che, da quel momento in poi, per praticare alcune attività bisognava seguire un certo percorso di studi previsto dalla legge. Niente di diverso, in sostanza, da quanto accade anche con altre professioni che, per la loro delicatezza, richiedono che vi siano iter ben chiari da seguire per potervi accedere.

Il fondamentale esito di questa sentenza, comunque, non è legato solo ed esclusivamente a persone che, in nome di un non meglio comprensibile principio di autodeterminazione professionale, decidono quale sia il loro percorso formativo ideale per poter praticare la psicoanalisi e, studiando le materie che loro (e non la società e, conseguentemente, la legge) ritengono determinanti, poi decidono di operare in questo campo. Naturalmente, rigettiamo fermamente l’idea totalmente autoreferenziale della formazione, ma almeno possiamo apprezzare che abbiano profuso tempo ed impegno nello studio.

Il pericolo ancora più grosso, da cui questa sentenza ci tutela, è soprattutto il contrario. Se è vero che può esserci qualcuno che ha svolto una lunga formazione, anche se totalmente autodeterminata, prima di operare in un campo a lui legalmente negato, esiste tanto più una miriade di personaggi che si inventano di sana pianta un qualche metodo di cura psicologico, senza nessuna istruzione specifica e, colti in flagrante, si attaccano all’etichetta “psicoanalisi” per giustificare la possibilità di fare quello che vogliono.

Da ora in poi questo rischio non si corre più. Con buona pace di chi, sulla formazione alternativa, ci lucra.

Infine, vorrei richiamare l’attenzione su un ultimo aspetto della sentenza che ha destato preoccupazioni in alcuni colleghi. Purtroppo, come capita in modo non infrequente, la stesura presenta alcuni errori formali (ma non sostanziali, se li si situa nel contesto). Nell’ultima parte si ritrova, infatti, questa frase: “Nè può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica, con conseguente configurabilità del contestato reato ex art. 348 c.p. in carenza delle condizioni legittimanti tale professione”.

Conseguentemente, le preoccupazioni che alcuni psicologi hanno manifestato riguardavano il fatto che si attribuisce il colloquio alla professione medica e, quindi, si teme che questo significhi che viene defraudata la psicologia di una delle sue competenze principali.

Comprendo i timori, visto che la nostra professione viene spesso “malmenata” in diverse situazioni, ma basta leggere con calma tutto il dispositivo per rendersi conto che il contesto non permette proprio tale fraintendimento. Sarebbe oltremodo contraddittorio, infatti, che un giudice sostenesse che l’attività di psicoterapeuta sia subordinata a specifica formazione e all’inserimento nell’albo dei medici o psicologi, che ne deducesse poi che la psicoanalisi, essendo psicoterapia, non può essere svolta da chi non ha tali requisiti, e poi asserisse che i colloqui li può fare solo il medico. Ad aggiungere ulteriore forza a tale affermazione, aiuta ricordare che parte civile del processo era l’Ordine degli psicologi, non quello dei medici, e l’accusa era di esercizio abusivo della nostra professione, perciò è assolutamente inequivocabile che, se l’indagata è stata dichiarata colpevole del reato di cui all’art. 348 del codice penale, non può che essere perché si ritiene che quel tipo di colloquio vada condotto da uno psicologo (o da un medico) con specifica formazione.

Se dovessimo guardare a tutti gli errori formali presenti nelle sentenze, non ne salteremmo più fuori. Spero che il nostro compito non sia quello di perderci dietro ad estenuanti congetture. Anche perché, in tal caso, dovremmo preoccuparci anche di sinistri significati in quella parte del testo in cui si parla della “costituita parte civile Ordine Psicologi Regione Reggio-Emilia”; possiamo preoccuparci certo delle nozioni di geografia del giudice, ma spero non mettere in dubbio che da oggi l’Emilia Romagna non sia più una regione e sia sostituita da una delle sue province!
Spero che queste ultime considerazioni tolgano i dubbi anche ai più timorosi e ci permettano di apprezzare, tutti insieme, l’utilità di questa sentenza.