Fin dalla nascita dell’Ordine del Lazio, una ventina di anni fa, la maggior parte del contenzioso fra colleghi comparso davanti alla Commissione disciplinare-deontologica, ha riguardato i conflitti tra CTU e CTP (Consulenti d’Ufficio e Consulenti di Parte).
Di solito è uno dei CTP (tipicamente, quello della parte “soccombente”, quella cioè a cui il giudice ha dato torto) a segnalare il CTU in quanto — a suo dire — colluso con la controparte (vincente). Ci sono però altre tipologie di conflitto: per es. i due Consulenti di parte a volte si attaccano vicendevolmente accusandosi di infrazioni deontologiche, puntualmente connesse con la (presunta) scorretta disamina dei colloqui svolti nel corso delle indagini o con la (presunta) distorsione dei risultati di esami psicodiagnostici.
Vi sono a riguardo due problemi di fondo che da molti anni l’Ordine non ha saputo/voluto affrontare, benché — almeno fino alla gestione attuale, che ha steso su tutto un velo di inerzia e di opacità — i Consigli degli anni 1990 e dei primi anni 2000 avessero posto le basi per una ridefinizione e riorganizzazione complessiva del settore, che sperabilmente avrebbe notevolmente deflazionato questo sgradevole e spesso strumentale contenzioso.
I motivi sono fondamentalmente due, e hanno a che fare tanto con la natura intrinseca di queste attività professionali che con questioni di potere: queste ultime finendo per rivelarsi di gran lunga le più significative. Ma vediamo bene di che si tratta.
Va detto che, certamente, lo psicologo impegnato in attività di consulenza in ambito forense è esposto inevitabilmente alle pressioni delle parti in lite nel civile e della difesa dell’imputato vs parte civile nel penale. Gli avvocati intendono, di regola, che il CTP sia un loro ausiliario, così come il CTU lo è del giudice: senonché il giudice e il suo ausiliario sono per definizione neutrali rispetto al conflitto, mentre le parti sono per definizione in aperto contrasto e pronte a servirsi a proprio vantaggio di ogni minimo errore o debolezza della controparte. Questa è la “fisiologia” del processo, e gli psicologi che vi sono coinvolti dovrebbero essere aiutati dall’Ordine (per es. attraverso iniziative di formazione, monitoraggio, mediazione-conciliazione) a mantenere un profilo di colleganza quanto più possibile franco e indipendente rispetto alla conflittualità processuale.
C’è però la questione che prima ho definito “di potere”, e questo complica tutto. Come funziona infatti questo settore?
Un numero ristretto di colleghi, da sempre, acquisisce la maggior parte delle consulenze grazie a una più antica e radicata frequentazione delle aule giudiziarie e di conseguenza al maggior numero di conoscenze personali fra i giudici e negli studi legali, e grazie alla tessitura di reti di relazioni fra colleghi a partire dalle scuole di formazione in psicologia forense che utilizzano gli allievi prima come aiutanti (a titolo gratuito) e poi come promotori e procacciatori.
Nulla di illegale in tutto questo, ovviamente: se non che il mercato delle consulenze è bloccato e blindato all’accesso degli psicologi più giovani, tranne che siano direttamente “clonati” dai pochi detentori di questo regime di oligopolio.
Non è certo l’Ordine a poter decidere di quali consulenti si possano o debbano servire giudici e avvocati, i quali comprensibilmente si rivolgono agli psicologi che conoscono e delle cui prestazioni professionali sono rimasti soddisfatti nel tempo: però l’ Ordine avrebbe potuto fare — e non ha fatto — un’opera di osservazione delle dinamiche di questo mercato (come di altri) e di facilitazione dello start-up al suo interno dei colleghi che via via intendevano e intendono confrontarsi con esso e almeno tentare di inserirvisi. Allo stato attuale, non solo nulla di tutto questo è minimamente in programma, ma numerose evidenze mostrano semmai che l’Ordine ostenta indifferenza e lascia campo libero all’oligopolio dei privilegiati che fanno il bello e il cattivo tempo in questo settore. E si potrebbe aggiungere che questi privilegiati sono tali anche rispetto alla possibilità di prevalere in sede di contenzioso disciplinare-deontologico su colleghi meno noti, meno esperti, meno “protetti”: anche perché questi ultimi — comprensibilmente — spesso si guardano bene dal segnalare pressioni o scorrettezze eventualmente subìte in corso di attività consulenziali, appunto perché sfiduciati quanto alla reale possibilità di vedere riconosciute le proprie ragioni.
Così, anche la strada dell’innovazione e del rinnovamento risulta chiusa: si adoperano sempre e solo i metodi, l’apparato concettuale e le procedure valutative decisi dalla medesima minoranza di colleghi. Del resto, perché un giudice o un avvocato dovrebbero porsi il problema dell’avvicendamento e del rinnovamento dei consulenti psicologi secondo un principio di equa distribuzione delle opportunità di lavoro in ambito forense? Il problema non è loro, dei giudici, il problema è nostro: e sta a noi risolverlo, nell’interesse tanto della categoria quanto della qualità dei servizi professionali degli psicologi, e quindi anche nell’interesse della nostra clientela pubblica e privata.
È tempo dunque che l’Ordine torni a occuparsi della materia, con spirito libero e alieno da ogni conflitto di interessi.
Pietro Stampa
Consigliere del primo Ordine degli Psicologi del Lazio 1994-1998
Membro effettivo della Commissione disciplinare-deontologica 1994-2006
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