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Il mio migliore amico è avvocato. E’ negato per i numeri, gli sono ostili le formule, oscure le aliquote – per non parlare degli scorpori.


C’è poi una cara amica di mia moglie che è veterinaria: l’unica cosa che le interessa davvero sono gli animali e proprio non le piace parlare di quote societarie, o di tariffe telefoniche, o di IVA sulla tassa sui rifiuti.


Queste due persone hanno studiato, tanto, animate dal desiderio di lavorare come professionista, ciascuno nel suo ambito. Volevano cioè diventare un avvocato (studiare strategie processuali, redigere atti, consigliare clienti) o un veterinario (visitare gli animali, somministrare terapie, eseguire piccoli interventi chirurgici ambulatoriali).

Per fare tutte queste belle e interessantissime cose però, devono affrontare quotidianamente una serie di incombenze: preparare una fattura (applicando se dovuta l’IVA e la percentuale per la cassa di previdenza), leggere prima di firmare il contratto d’affitto per l’immobile dove lavorano, acquistare un pc, firmare bolle d’accompagnamento, aggiornarsi professionalmente, eccetera.


Il punto è che nessun avvocato si lamenta di dover imparare a fare le fatture, nessun veterinario si ostina a oscillare tra “mi iscrivo o non mi iscrivo all’ordine”: semplicemente, tutte queste attività – o scocciature se volete – fanno parte del pacchetto, e chi vuol fare l’architetto o il dentista, l’avvocato o il geometra le accetta senza pensarci troppo sopra.

Gli psicologi invece sono (spesso) più refrattari ad accettare queste implicazioni della professione: vorrebbero sentirsi rispettati alla pari di medici e ingegneri, professionisti tanto quanto un avvocato o un consulente del lavoro, ma preferirebbero vivamente che i soldi arrivassero già in conto corrente, giustificati da una busta paga in cui sono già stati fatti quei noiosissimi conti sulle addizionali e le detrazioni. Gradirebbero moltissimo un rapporto da dipendente (idealmente pubblico), ferma restando la loro autonomissima professionalità.


Niente di male, anzi: tutti i colleghi che lavorano nel pubblico svolgono funzioni fondamentali, utilissime, e personalmente – per quel poco che ho potuto vedere con i miei occhi – penso le espletino nel miglior modo concretamente possibile; da cittadino aggiungo che sono grato di vivere in un posto dove si può accedere a questo tipo di servizi, all’occorrenza.

Ma in riferimento alla categoria degli psicologi, io questo atteggiamento non lo capisco: essere autonomi, saper fare il proprio lavoro con tutto quello che implica anche essere in grado di occuparsi (direttamente o meno) di ogni aspetto della propria vita lavorativa, sono caratteristiche positive, gratificanti e rispettabilissime. C’è da essere orgogliosissimi di diventare professionisti affermati, indipendenti, grati soprattutto a se stessi per quello che si è. E c’è anche l’orgoglio di riuscire a far fronte a tutte le incombenze che gravano sulle spalle degli altri professionisti in Italia: mica sarà impossibile scorporare sto benedetto due per cento! Dirò di più, lo si dovrebbe addirittura fare con noncuranza, come se fosse cosa da poco (lo è).

Per cui mi permetto di consigliare a chi inizia la professione di non perdere neanche un minuto a esitare: per fare questo lavoro, in una qualsiasi delle decine di forme che oggi sta prendendo, è necessario sapere un po’ di tutto (economia, bilancio, diritto amministrativo, marketing, project management, financing, capacità di innovazione di prodotto e di processo, mindset da imprenditore, Cit.) oltre a quello che si è imparato all’università.

Come diceva quel tale: just do it.