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Sempre più facile dopo la condanna del “guru” Moccia dimostrare l’esercizio abusivo di professione psicologica.

Quando qualcuno viene accusato di esercizio abusivo della professione di psicologo di solito cerca di difendersi in due modi.

Il primo, il più ingenuo, passa attraverso dei formalismi, ad esempio dando a se stesso e a ciò che fa delle definizioni diverse da quelle di psicologo. Può accadere ad esempio che soggetti fermati sulla soglia del proprio studio di psicologi abusivi si giustifichino dichiarando di essere “altro”: “ma io non sono uno psicologo, sono un counselor”, senza che questo possa essere minimamente determinante, anzi risparmiando agli inquirenti il tempo di verificare la sua iscrizione all’albo! Già poiché quello che vale è sempre e solo ciò che ciascuno fa, non la definizione che ne dà.

Una seconda categoria di giustificazioni dei nostri potenziali abusivi è più insidiosa e ha che fare con l’uso di strumenti e tecniche di natura non psicologica, per esempio la pranoterapia, il Reiki, le costellazioni familiari, l’ipnosi regressiva, la Psicomagia di Jodorowsky o altre tra le infinite amenità che la fantasia umana ha prodotto. C’è però una notizia. Questo secondo problema è stato recentemente risolto dalla Cassazione, che nel condannare Vito Carlo Moccia come guru del metodo Archeon con la sentenza 39339 del 2017 ha chiarito, ora e forse per sempre un problema che potremmo definire “di prospettiva” e che sarà estremamente utile nella definizione dei futuri procedimenti per esercizio abusivo della professione di psicologo.

Il punto non è assolutamente quale tecnica decida di usare l’abusivo, che non essendo psicologo non è affatto tenuto a conoscerne teoria e tecniche che può a buon titolo ignorare. La ragione stessa per cui esiste un reato di esercizio abusivo della professione di psicologo e di psicoterapeuta è del resto evitare quella particolare e insidiosa forma di “truffa” che induce il paziente, direttamente o indirettamente a credere che l’abusivo possa fare qualcosa di buono per migliorare il proprio stato psichico.
Sentenze importanti come la 14408 del 2011 ci hanno già detto che perfino il semplice colloquio può rappresentare una “tecnica” se ha una specifica finalità (si parla di finalità teleologica, ovvero di orientamento di un azione a uno specifico fine). Oggi la sentenza 39339 ci dice di più: “non è necessario” -recita la sentenza- “che il soggetto non qualificato si avvalga di una delle metodologie proprie della professione psicoterapeutica, ma è sufficiente che la sua azione incida sulla sfera psichica del paziente con lo scopo di indurre una modificazione, che potrebbe risultare dannosa”.
È, questo, un passaggio nuovo in giurisprudenza e decisamente fondamentale!


Non tanto perché nel caso specifico del Sig. Moccia il tema riguardasse la promessa implicita di operare una valutazione e diagnosi e, attraverso questa, di incidere sulla psiche del paziente attraverso un processo di cura, quanto proprio perché propone in un certo senso una rivoluzione copernicana: al centro del reato di esercizio abusivo di professione psicologica non c’è la tecnica, ma il paziente.

Se “prometti” di fare qualcosa che induca un cambiamento positivo nello stato psichico di una persona-paziente l’esercizio abusivo di professione psicologica è già un dato di fatto.

Un’altra e precedente sentenza già sosteneva che in caso di lucro, cioè se si chiede un corrispettivo è sufficiente dimostrare che si è fatto un atto caratteristico di quella professione. Se c’è passaggio di soldi, l’esercizio abusivo era già quindi più facile da dimostrare perché, diciamo così, è come se fosse chiaro… il “movente” del crimine!

La conseguenza di questa sentenza è più radicale ancora. Se l’inventore di una fantomatica setta induce delle persone a credere di poter ricevere un beneficio rispetto al proprio stato psichico utilizzando strumenti e tecniche di origine varia ed eventuale, non ha alcuna importanza l’origine di queste tecniche, se il guru sia colto o ignorante di psicologia, e che cosa realmente egli offra ai suoi sofferenti adepti: ciò che importa è solo ed esclusivamente il fatto che gli prometta più o meno esplicitamente di regalare ad essi un beneficio sul piano psicologico.

È importante perché sono moltissimi i soggetti, dei pranoterapeuti ai counselor passando per i pedagogisti clinici e i filosofi pratici a improvvisare “valutazioni” dello stato psicologico dei propri pazienti e poi promettendo benessere quando non vere e proprie presunte “cure”.

Si può ben dire che un ulteriore importantissimo tassello sul piano della tutela della professione di psicologo sia stato posto da questa sentenza. La quale in sintesi chiarisce la centralità delle convinzioni del paziente di fronte alla natura truffaldina di chi vanta una competenza che non può applicare al paziente senza adeguata formazione e addestramento.

Già nel corso degli scorsi anni la suprema corte aveva chiarito alcuni punti essenziali, tra i quali il fatto che fosse sufficiente un unico atto di esercizio abusivo della professione perché si potesse configurare il reato ex art 348 c.p., il fatto che non sia necessario un pagamento per configurare l’esercizio abusivo di professione ma anche che quando tale pagamento c’è diventa facile dimostrare l’esercizio di abusivismo della professione di psicologo.

Da molto tempo continuo a dire che la giurisprudenza si sta muovendo in una direzione di tutela sempre più rigorosa dei pazienti sottoposti a cure psicologiche. E con il tassello di oggi si può dire che la vita degli aspiranti stregoni si va via via facendo più difficile, confinandosi intorno a un oggetto sempre più evanescente.

Per questo appare decisamente fuori luogo e fuori tempo che certe domande e certe risposte alle quali la giurisprudenza sta già dando risposte rischino di essere messe in questione da riflessioni già sorpassate a opera del nostro stesso Consiglio Nazionale (CNOP).

Sarebbe davvero grottesco se proprio quando la società civile e la giurisprudenza stanno sempre più riconoscendo la cura della psiche come territorio riservato a professionisti abilitati da un lungo percorso di formazione, il nostro stesso fuoco amico abbattesse quei pilastri che stanno finalmente culturalmente costruendo la dignità di una professione, quella di psicologo, tuttora molto giovane.

Ancora oggi il reato di esercizio abusivo di professione psicologica è e rimane uno tra i più difficili da perseguire ma non per ragioni tecniche o per l’ambiguità della nostra professione, ma solo per la reticenza a denunciare di chi si è rivolto ad un falso psicologo mettendo in risalto quella che rischia di apparire una leggerezza o una fragilità personale. Se oggi ciò che realmente accade in molti “studi” di soggetti non abilitati all’esercizio della nostra professione venisse semplicemente alla luce, forse molte delle presunte “nuove professioni” che non sono riuscite mai a descrivere il campo del proprio agire sparirebbero in un istante.