image_pdfimage_print

Fantastico spesso l’istituzione di un ministero della Parola, cui attribuisco svariate competenze sorrette da un’apposita normativa. Tra le funzioni che vorrei affidate all’Alta Vigilanza del ministro è la distribuzione, paritetica e parca, degli imperativi, e mi riferisco proprio al modo del verbo (da’, fa’, di’), anche quando viene sostituito dal congiuntivo se ci si dà del lei (dia, faccia, dica). Oggetto di particolare sorveglianza sarebbero gli imperativi “devi…” e “ deve…” se pronunciati all’indirizzo di qualcuno nell’intento di sollecitarlo a compiere una certa azione, adottare una certa condotta e soprattutto far assumere una certa forma e contenuto ai suoi pensieri e sentimenti.
Se ci si fa caso, nel mondo bizzarro che abitiamo vige una policy all’incontrario: quelli che sarebbero più legittimati a usare l’imperativo (agenzie di socializzazione, insegnanti, famiglia, insomma le autorità) ci stanno attenti, elaborano insidiose strategie di persuasione e manipolazione (“uso dei trucchi” sento dire ogni tanto ai genitori che vogliono far fare qualcosa di normale ai figli, tipo andare a scuola la mattina); nelle aziende si utilizzano imitazioni della maieutica per far credere ai dipendenti di avere elaborato personalmente la decisione del dirigente. L’imperativo viene invece praticato senza freni dal passante casuale, dal parcheggiatore, dall’amministratore di condominio nei confronti del condomino suo datore di lavoro, dall’amico che ti ingiunge “sta’ attento” quando ormai sei inciampato nel gradino e hai pestato gli escrementi di un cane di grossa taglia.
Il più delle volte non ci facciamo caso, a meno che il nostro lavoro implichi come mandato una certa sorveglianza del lessico: sarà capitato a molti psicoterapeuti che un cliente arrivi in ritardo dicendo “Lei mi deve scusare”, e gli si replica “Non devo, posso”. Fuori studio, però, l’imperativo sparpagliato è semplicemente fastidioso, e se non stiamo attenti a stabilire continuamente confini tra obbedienza e condiscendenza i nostri percorsi nelle città diventano sentieri militari.
Il ministero della Parola avrebbe una funzione special-preventiva, ben sapendo che un imperativo fuori luogo e mal collocato può essere la goccia che fa traboccare il vaso dell’irritazione, soprattutto quando ti viene ingiunto qualcosa che hai già fatto o un’azione rispetto alla quale non hai alternative.
Ora, la vita di tutti i giorni è costellata di contrattempi, ovvero di eventi imprevisti che si verificano in un momento inopportuno impedendo o ritardando il normale svolgimento delle nostre incombenze. Nelle circostanze in cui siamo ostaggi di qualcuno o qualcosa che ci si mette per traverso, nessuno dovrebbe infierire su di noi dandoci ordini; sarebbe semmai gentile da parte sua cercare di distrarci, dire una spiritosaggine, raccontarci una storiella. Invece proprio questo è il momento in cui la Società ci dedica una raffica di imperativi: non perdere il buon umore, sii ottimista, non ti lagnare; immancabilmente qualcuno si sente autorizzato a pronunciare la frase per cui invocherei sanzione: “Devi Avere Pazienza”.
Già bravo, pensi, e fin adesso che cos’ho fatto? Fino a cinque minuti fa la Società mi ha ammorbato infliggendomi le stesse osservazioni sul tempo atmosferico che ero già stata in grado di compiere per mio conto prima di uscire di casa, a seguito delle quali avevo già assunto le necessarie decisioni di portarmi un ombrello o indossare un maglione più caldo essendo pertanto pronta a passare ad argomento più interessante. Eppure con tutte le persone che hanno voluto informarmi che fa freddo e nevica ho educatamente convenuto che effettivamente così stanno le cose, mi sono astenuta dal fare commenti sarcastici tipo “Ma davvero? Sa anche per caso se è arrivato l’inverno?”, ho addirittura introdotto alcune piccole varianti sul tema, dalla mitica nevicata milanese nel maggio di tanti anni fa a quella volta che il sindaco Moratti si era dimenticata di comprare il sale e tutti scivolavamo sul ghiaccio; ho finto che l’argomento mi appassionasse mentre volevo solo aprire l’e-book reader per finire il mio giallo, ho sorriso e fatto sorridere. Dovrei essermi meritata la medaglia d’oro della Pazienza; l’ho praticata e diffusa al popolo permettendogli di pensare che un evento così infausto come una giornata fredda non è equiparabile alle piaghe d’Egitto.
Ma ecco che, giunta a destinazione, dopo aver fatto la mia paziente fila di mezz’ora, mi sento dire dall’ impiegata che a causa di problemi organizzativi non hanno fatto in tempo a mettere un cartello che mi ordinasse di fare la fila a un altro sportello e che dunque ho perso mezz’ora per niente; porto pazienza, faccio una fila di un quarto d’ora (che risparmio!) all’altro sportello per sentirmi dire: “sì, è vero, si fa qui, ma poteva farglielo fare anche l’altra da cui è andata prima, solo che avrebbe dovuto farle pagare un euro in più”. Disobbedisco: perdo il buonumore e l’ottimismo (la stupidità vista da vicino mi fa questo effetto) e non trattengo la battuta sarcastica che mi sono ingoiata in occasione delle considerazioni sul tempo atmosferico. L’impiegata probabilmente non afferra il criterio di calcolo con cui stabilisco il rapporto tra quanto mi costa un’ora in tasse con cui vengono pagati gli stipendi suoi e della collega e l’euro che hanno voluto gentilmente risparmiarmi, ma capisce che sono contrariata e non trova di meglio che ingiungermi “Deve Avere Pazienza”. Me ne è rimasta, di pazienza, una briciola, quel che basta per replicare: “No, signora, non credo proprio” e mi metto in sciopero. Per il resto della giornata al passante casuale che mi informa che fa freddo e nevica rispondo che io sento caldo e c’è il sole. Che la faccia lui, la Bisbetica Domata.