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E’ diventato davvero frequente leggere sui quotidiani la notizia di nuove scoperte della neuropsicologia. Ogni volta l’idea trasmessa è di un progresso nel controllo medico su pensiero ed emozioni, quasi che le aspettative su nuove terapie dei malanni psichici dovessero essere riposte esclusivamente nella medicina. Tutto ciò in contrasto con quanto si apprende se, invece, si consulta la letteratura specialistica neuropsicologica, la quale contiene ampie conferme della efficacia dei metodi di cura di natura psicologica: capacità delle relazioni interpersonali di influenzare lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali, efficacia delle psicoterapie nel produrre cambiamenti dei circuiti sinaptici cerebrali ecc.

In pratica, la divulgazione su questi temi è sistematicamente parziale e quindi confusiva.  Perché? Sono  almeno tre i fattori qui in gioco nel medicalizzare le patologie psichiche: la ben comprensibile tentazione giornalistica di attrarre il lettore strabiliandolo, i vantaggi che  effettivamente gli psicofarmaci hanno dimostrato di offrire in talune patologie e, soprattutto, la tendenza ormai secolare della medicina a inglobare la psicologia. E’ su quest’ultimo punto che desidero qui soffermarmi.

I tentativi di omologazione della psicologia alla medicina

La tendenza di una parte della medicina ad includere le competenze psicologiche si esplica attraverso vari riduzionismi tesi a negare l’alterità del sapere psicologico o a banalizzarne la portata. Uno di essi è considerare gli effetti delle situazioni psicopatogene come causa della patologia stessa: le reazioni delle persone alle situazioni relazionali patogene del passato o attuali – reazioni comportamentali, ovviamente correlate alle peculiarità genetiche e acquisite di ogni individuo e accompagnate da trasformazioni biochimiche cerebrali – vengono studiate senza adeguata considerazione per la situazione patogena alla quale sono associate. Il fattore causale della sofferenza viene quindi individuato nei correlati biochimici della sofferenza stessa. Il sintomo psicopatologico diventa così l’esito di una anomalia del funzionamento cerebrale. Le sostanze psicotropiche diventano pertanto l’unica terapia tesa a risolvere la patologia alla radice: ad esse viene attribuita la qualifica di farmaci e ne viene ovviamente riservata la competenza alla medicina. E poiché negli ultimi decenni il progresso tecnologico ha consentito la creazione di molte nuove sostanze, per la verifica sperimentale dell’efficacia di ciascuna per ogni tipo di sofferenza psichica si è resa necessaria una classificazione minuziosa delle sofferenze stesse e delle anomalie comportamentali che le accompagnano (ICD 9 e ICD 10, DSM III e DSM IV). Le sindromi così descritte sono qualificate come malattie: tutte le anomalie comportamentali sono quindi dette malattie, non solo quelle come per esempio il disturbo psicotico da alcol che sono effettivamente l’esito di anomalie del funzionamento cerebrale.

Se è vero che una tale classificazione si è poi rivelata utile non solo per la prescrizione psichiatrica, ma anche per la pratica clinica psicologica e la ricerca, è anche vero che non esiste una altrettanto minuziosa classificazione delle situazioni psicopatogene: questo fascio di luce esclusivamente puntato sull’anomalia del comportamento e sul suo correlato biochimico tende a confermare la qualificazione di quest’ultimo come causa della sofferenza.

Non meraviglia quindi che quando, a partire dalla fine del secolo scorso, la neuropsicologia con le tecniche di neuroimaging ha reso visibili alcuni correlati biochimici cerebrali di pensieri e sentimenti normali e anomali, ciò abbia creato l’illusione ottica della possibilità di una diagnosi delle psicopatologie basata su accertamenti medici: oggi manca poco che per decidere se una persona è davvero depressa la si sottoponga a una PET!

La discontinuità tra diagnosi psicologica e diagnosi medica

Il punto è che la diagnosi e la terapia psicologiche non possono essere incluse in quelle mediche e neppure ad esse contestuali; infatti, presuppongono una diversa epistemologia nella mente del terapeuta che necessariamente si traduce in una diversa modalità di relazione con la persona sofferente, relazione che a sua volta è essenziale perché la persona collabori alla diagnosi stessa nonché alla terapia. Sappiamo bene che nella diagnosi psicologica contano i dati che il cliente riferisce sulla propria storia, ma contano parimenti le associazioni tra i dati. Così come contano le sue emozioni nel corso della seduta e le emozioni nonché le associazioni dello psicologo. Si tratta di processi conoscitivi ben differenti da quelli in gioco nell’anamnesi medica,  nella visita e negli altri accertamenti medici, dove l’intuito e la sensibilità del terapeuta si esercitano nella cornice di dati clinici acquisiti con il metodo scientifico sperimentale. In particolare, il medico psichiatra ha il compito e la responsabilità di classificare in modo veloce e preciso il profilo comportamentale del cliente usando la metodologia di categorizzazione necessaria  per prescrivere quel farmaco che la letteratura indica come adeguato (se sbaglia nell’abbinamento profilo-farmaco può causare al cliente un danno anziché un vantaggio).

Per questo la prestazione psicologica e quella medica sono necessariamente discontinue.

L’epistemologia della gente

Nonostante le informazioni confusive che quotidianamente ricevono, le persone che hanno problemi psicologici si ostinano e cercare l’aiuto degli psicologi: sono l’intuito, la sensibilità e il buon senso della gente comune il miglior alleato della psicologia  clinica. In base al sentire comune, se un disagio è di natura affettiva ed emozionale, i rimedi vanno cercati innanzitutto nelle relazioni. Inoltre, il buon senso comune insegna che se, invece, si cerca aiuto in un farmaco, qualora esso funzioni nel far sparire la sofferenza, si tenderà a ripeterne l’assunzione in  ogni occasione di sofferenza.

Alleato della psicologia è anche il sapere degli stessi medici: al di là degli strumenti chimici per condizionare i circuiti sinaptici o in aggiunta a tali strumenti, è alla psicologia che non solo talvolta la psichiatria, ma anche la medicina di base, la cardiologia, l’oncologia, la dermatologia ecc. chiedono aiuto quando è necessario migliorare la relazione con il cliente, o migliorare la relazione tra il cliente e la sua malattia, o quando, come nella psicosomatica, è necessario procedere con la diagnosi e la terapia psicologiche in parallelo con quelle mediche.

Grazie a queste alleanze, abbiamo potuto contrastare le strategie riduzioniste di cui sopra: ci siamo barcamenati per non farci includere nella medicina e abbiamo lavorato  per qualificare le psicoterapie e per evidenziare in ogni singolo caso clinico le eventuali cause o concause relazionali del disagio.