image_pdfimage_print

L’osservatorio privilegiato dello psicologo-psicoterapeuta consente l’esplorazione profonda e privilegiata del campo sociopsichico – così come descritto nelle prima parte di questo contributo – appartenente ad individui, famiglie e gruppi che si muovono nella contemporaneità e rileva, come prima ambientazione naturale e come prima interfaccia critica – tra l’individuale ed il sociale – i percorsi maturativi e i loro inciampi, nel campo mentale del famigliare e nell’arco vitale, dalla condizione di figlio fino a quella di nonno.

Il campo del famigliare, con il suo flusso figliogconiugeggenitoregnonno, appartiene a tutti gli effetti al campo sociopsichico e ne è in qualche modo un suo isomorfo in quanto contesto primario e naturale di ambientazione/disambientazione di un percorso d’individuazione tra individuo e gruppo che vede nello specifico ambiente del famigliare un confine critico e rivelatore.

Intendiamoci, il flusso progressivo del ciclo vitale qui indicato – figliogconiugeggenitoregnonno non vuole minimamente rappresentare un modello o tragitto di idoneità (ci si può sentire pacificamente idonei e adeguati pur scegliendo di non percorrerlo). Non c’è dubbio però che gran parte di noi, volente o nolente, ci fa ingresso e ci si ritrova al suo interno ad affrontare numerose questioni. E le istruzioni per l’uso a cui fa riferimento il titolo sembrano essersi smarrite.

Nell’ottica dell’impegno etico della psicologia e della psicoterapia riguardo i legami sociali (anche questo evidenziato nella prima parte di questo contributo), diventa necessario interrogarsi circa l’attuale criticità che investe gli individui nei loro passaggi all’interno del campo sociopsichico delle famiglie di origine e, in successione, nei loro tentativi di attraversamento di nuove funzioni gruppali, affettive, coniugali e genitoriali. La prospettiva psicologica qui proposta ha numerosi vantaggi: quello di depatologizzare lo sguardo su individui, coppie, famiglie e società; quello di utilizzare modelli di comprensione umanistico-antropologici; quello di conservare saldamente una posizione critica e d’indagine su fenomeni in fieri e, per tal motivo, fuori dalla portata di una comprensione esaustiva.

L’immagine che l’esperienza clinica ci suggerisce, nelle recenti e titaniche fatiche dei nostri pazienti, è quella di una sopraggiunta, quanto apparentemente inspiegabile, farraginosità nell’imbastitura di trame psicosociali e valoriali nel determinare le “regole d’ingaggio” appartenenti ai diversi passaggi maturativi, e al progettare con un senso minimamente condivisibile modalità di essere dentro le relazioni familiari, vecchie e nuove.

Volendo rendere meno inspiegabile tale farraginosità, dobbiamo necessariamente pensare a ciò che, a memoria di ognuno di noi, avveniva fino a pochi decenni fa, e provare ad interpolarlo a ciò che avviene oggi. Non c’erano, ad esempio, fino a solo 40-50 anni fa, grandi crisi nel sentirsi ragazza “da marito” o ragazzo “da moglie”, o nel sapere come si comporta un genitore o un nonno, o come si gestiscono le relazioni tra famiglia di origine e nuova famiglia. Questi passaggi maturativi, fino a una/due generazioni fa, erano dunque ordinariamente regolati da silenziosi ed impliciti sincronizzatori socio-culturali sia per le modalità di transito, sia per le specifiche funzioni di ciascun passaggio. Non s’intende certo con ciò edulcolorare il passato come un’età dell’oro perduta, non c’è alcun rimpianto da parte di chi scrive a tal proposito, ma serve solo a dettagliare le evidenti discontinuità (fratture) tra epoche storiche di fatto vicinissime.

Negli ultimi decenni, infatti, gli stessi passaggi sono stati progressivamente delegati alla responsabilità del singolo individuo il quale si ritrova costretto a gestirsi in modo solitario un carico simbolico-procedurale immane, dovendosi di volta in volta “inventare/re-inventare” ciò che attiene ad ogni passaggio e ad ogni funzione, senza il conforto di riferimenti chiari e condivisi. Chi vive, ad esempio, la dimensione della coppia stabile e della fondazione di una nuova famiglia sembra aver perduto le necessarie “interfacce simbolico-procedurali” con il corpo socio-culturale e con il campo transgenerazionale che in precedenza nutrivano ed orientavano scelte, strategie e prospettive relative ad ogni singola posizione. Ma la stessa cosa la si potrebbe affermare riguardo i primi passaggi “iniziatici” dell’adolescenza, della sessualità, della vita di relazione, della vita di gruppo, così come di ogni snodo biografico, accompagnato fino a ieri da un supporto simbolico-procedurale, oggi divenuto invece sfuggente, sfumato ed inaccessibile.

Diventa arduo dunque ogni singolo passaggio maturativo perché vissuto a volte come salto nel buio, come indebita complicazione della vita, come responsabilità intollerabile, come irreversibile scelta, come rinuncia ingiustificata ai privilegi del presente, per la quale ci si ritroverà da soli ed incapaci a risolvere le varie e smisurate impellenze.

Il cambiamento più vistoso in merito al flusso figliogconiugeggenitoregnonno è a carico delle singole posizioni e dei singoli passaggi generalmente vissuti come alternativi e successivi anziché come articolati e aggiuntivi: sembra essersi perduta l’articolazione tra i vari passaggi biografici. Entrare in una piena posizione coniugale, ad esempio, spesso può coincidere con l’idea di perdita irreversibile e catastrofica delle prerogative-certezze della posizione filiale; ugualmente, entrare in una piena posizione genitoriale fa perdere, nel vissuto, le certezze e le attenzioni della posizione coniugale, e così via. Nella prospettiva dell’articolazione e addizionalità delle diverse posizioni nel flusso, chi diventa coniuge non cessa di essere figlio, chi diventa genitore non cessa di essere coniuge e figlio, chi diventa nonno non cessa di essere coniuge e genitore. Ma imparare a coniugare ed integrare, in un’articolazione più complessa, i diversi ruoli-funzioni che si sovrappongono in uno scenario interno più ampio, corrisponde attualmente ad uno “sforzo di fantasia” che rappresenta per molti un compito oggettivamente (e non soggettivamente!) ancora troppo arduo.

Questo corrisponde a ciò che Zigmunt Bauman, il grande sociologo e pensatore della condizione postmoderna, ha cercato di mostrare nel corso degli ultimi anni: ad un incremento delle prerogative di libertà e autodeterminazione dell’individuo, tipiche delle società moderne e postmoderne occidentali, è conseguito un indebolimento del potere di validazione delle istituzioni sociali riguardo l’individuo stesso. In altri termini assistiamo, negli ultimi decenni, al progressivo smantellamento dei codici istituzionali e simbolici che definiscono sia l’idoneità sociale degli individui sia i suoi passaggi maturativi. A ciò va aggiunto il progressivo scardinamento dei codici socio-comunitari (i motivi per i quali si convive con gli altri) che definivano, nel bene e nel male, appartenenze e identità. Risultato: sull’individuo ricade oggi un carico simbolico e operativo-procedurale che precedentemente era appannaggio delle istituzioni sociali, politiche e religiose, o quanto meno era significativamente sostenuto da esse.

Dunque, l’individuo si ritrova oggi a fare i conti, da solo, con attribuzioni di senso che riguardano sia i propri passaggi maturativi (infanzia-adolescenza-giovinezza-età adulta-mezz’età-vecchiaia-morte), sia tutti i compiti sociali (scuola, gruppi e culture extrafamiliari, lavoro, rapporti affettivi, coniugalità, genitorialità, etc..). Una missione praticamente impossibile se gestita in maniera solitaria.

La frantumazione di un modello antropologico unitario (o ritenuto tale, a torto o a ragione) della cosiddetta famiglia tradizionale, viene qui inteso non solo come causa efficiente di nuove forme di umanità, ma, circolarmente, anche come effetto di processi qui descritti di progressivo disincanto, disancoramento, isolamento degli individui, ma anche come effetto di una lacerante discontinuità con le trame transgenerazionali. Al di là degli innumerevoli fattori socio-culturali che presiedono a tali fenomeni, questo determina una disorganizzazione delle ambientazioni-famiglie in ordine ad ogni sequenza esistenziale di esse: dal tramonto della commensalità durante gli orari dei pasti fino alla mutata declinazione del desiderio sessuale nelle coppie coniugali; dalla laboriosa gestione del limite nell’educazione dei figli fino all’uso del tempo domestico in attività-pattumiera a forte valenza alienante (tv, internet, videogiochi, cellulari). E così via.

L’esistenza in vita della cosa-famiglia (e prima ancora della cosa-coppia) si confronta quotidianamente con una dispersione di senso in ogni attimo in un’emorragia che richiama alla necessità di continue trasfusioni: il senso dell’essere famiglia, cioè, va cercato e ricercato sempre di nuovo e sempre su nuove ambientazioni. Ma questa operazione risulta, alla fine, talmente sfiancante e molto spesso improduttiva, tanto da rendere comprensibile l’astensione dal cimento.

Queste riflessioni mi servono a disegnare la cornice dentro la quale, a mio parere, si devono inscrivere, nella nostra contemporaneità, molte vicende che riguardano le prospettive di coppie e famiglie, e prima ancora, dei legami affettivi preliminari e successivi la formazione di coppie e famiglie.

Fuori da questa cornice diventano incomprensibili alcuni “nuovi” fenomeni contemporanei di “frammentazione” o di “faticosità” che a loro volta determinano le frequenti crisi di coppie e famiglie, e che in genere vengono surrettiziamente attribuite alla difettosità dei singoli membri. Non ha alcun senso e utilità un approccio riduzionistico (in genere psicologistico, ma anche socio-qualunquistico) che intervenga in maniera causalistica (etiologica) ed espiatoria sulla comprensione di tali fenomeni. Non esiste più infatti un’idea unitaria e condivisa di coppia e di famiglia e gli studiosi di scienze umane si affannano ad inseguire le definizioni di coppia e famiglia alla luce dei tumultuosi e caleidoscopici cambiamenti di assetto di strutture sociali precedentemente riconoscibili (pensiamo, ad esempio, tra gli innumerevoli fenomeni in gioco negli ultimi decenni, alle mutate condizioni della donna nella società e nella coppia/famiglia, alle mutate condizioni/rappresentazioni del lavoro delle società post-industriali, alle mutate condizioni economiche su scala “macro”, etc.).

Detto in altri termini, gli individui che si cimentano in progetti coniugali e genitoriali si ritrovano spesso da soli e privi di risorse, ed essere in coppia o in famiglia, sentirsi fautori e protagonisti di funzioni coniugali e/o genitoriali è diventato oggi un compito molto difficile al quale singoli e coppie fanno fronte con grande affanno.

Una considerazione che si sente spesso fare, alla vigilia di una scelta coniugale o alla vigilia della nascita di un figlio è: <<come posso fare la compagna o il compagno, oppure la madre o il padre, se mi sento e sono ancora figlia/o? Non sono pronta/o, è un compito troppo alto>>.

Oppure, quando si affrontano questioni delle giovani coppie stabili in uno stallo della progettualità, si sentono fare, tra le tante, queste considerazioni: <<lui/lei non si assume nessun impegno formale nei miei confronti>>; <<ci annoiamo l’uno dell’altro>>; <<mi sembra troppo esitante e dubbioso/a, forse non ci amiamo più>>; <<siamo diventati come fratello e sorella>>; <<io vorrei un figlio, ma lui/lei non ne vuole parlare>>; e così via.

Oppure, facendo ancora un passo indietro, quando l’individuo (più o meno giovane) si confronta con la difficoltà di approccio o di definizione o di alleanza con l’altro sesso, magari dopo una serie di tentativi fallimentari e deludenti, si sente dire: <<sento di non avere alcuna speranza di incontrare una persona adatta a me>>; <<non c’è nessuno all’altezza delle mie aspettative>> o viceversa <<non sono all’altezza delle aspettative altrui, sono fuori dal giro>>.

Tutte queste considerazioni, ed altre ancora, molto comuni nei contesti psicoterapeutici, ma non solo, indicano, nei diversi momenti di vita dell’individuo, la faticosità del passaggio-articolazione figliogconiuge.

Tra uno scenario certo, anche se angusto e privo di profondità prospettiche, ed uno incerto e laborioso diventa legittimo decidere di non decidere e di rimanere fino ai 30-40 anni a casa coi genitori – dato ampiamente confermato dalle statistiche degli ultimi anni e che ha assunto oramai carattere sociologico – solo che le più comuni analisi su tali dati enfatizzano le incertezze socio-economiche tipiche dei nostri tempi, ma non approfondiscono le trasformazioni culturali delle trame sociopsichiche e del tessuto familiare di cui si fa riferimento qui.

Un secondo passaggio-articolazione delicato riguarda quello tra coniugalitàggenitorialità. Anche questo transito, in epoche limitrofe a noi ancora lineare e scontato, è diventato oggi complicatissimo.

Anche se giuridicamente una coppia può essere considerata una famiglia, dal punto di vista psicologico possiamo parlare propriamente di famiglia quando sono presenti almeno due generazioni.

Oggi una sorta di angoscia generativa pervade molte coppie giovani e meno giovani, indipendentemente dal loro grado di “robustezza”: anche per quelle coppie collaudate e stabili – compagni o sposi – il momento della decisione del concepimento è talora preceduto da una crisi profonda del rapporto; per le coppie meno collaudate, ugualmente, la dichiarazione di desiderio di un figlio da parte di un membro è a volte motivo di separazione. La denatalità della nostra civiltà è infatti un dato ormai noto a tutti, e da quanto qui ipotizzato, ed anche qui non si tratta solo di un fenomeno di natura socio-economica.

Intanto va detto che l’attuale enfasi, per certi versi condivisibile, posta sulla consapevolezza della scelta e sulla solidità del desiderio in merito alla nascita di un figlio, è un fenomeno culturale piuttosto recente e sembra produrre piuttosto effetti paradossali e controproducenti: l’arrivo di un figlio in una neo-famiglia diventa sempre più una specie di “evento capitale” che viene investito da eccessive aspettative e timori.

D’altro canto, se nei decenni passati la nascita di un figlio in una coppia sposata da poco attestava la nascita della famiglia stessa ed era unanimemente considerato una “grazia”, un evento fortunato che aggiungeva qualcosa, oggi è avvenuto un ribaltamento di questo significato nel suo opposto: un figlio priva i genitori della loro autonomia e libertà di movimento, della loro possibilità di realizzazione socio-lavorativa (o quantomeno la frena) e casomai aggiunge preoccupazioni e sentimenti di responsabilità gravosissimi.

Aggiungiamo a questo quadro psico-culturale le oggettive difficoltà prodotte dalla reale inaccoglienza dell’intera società verso i nascituri: problemi economici per le coppie giovani e mancanza di sostegno sociale, carenza di strutture, percezione di pericolosità per i bambini, sentimento di assenza di prospettive per il loro futuro, e così via. Insomma assistiamo ad una saldatura tra timori interni e difficoltà esterne, per cui affrontare la generazione e la generatività è diventato un problema enorme.

In presenza di un eccesso d’incertezza la psiche umana si difende legittimamente proteggendo ciò che ha già come acquisito e, come detto, si arrocca recedendo su posizioni meno fluttuanti: la famiglia di origine o in alternativa la coppia stabile non generativa (ma potrebbe essere anche il lavoro), che diventano immediatamente territori psichici di rifugio (almeno nell’immaginario).

Sono sempre più frequenti le situazioni di coppie fidanzate o sposate, anche da tempo, che decidono di non fare figli, ma ancora più numerose sono quelle coppie stabili e conviventi, che superati i 30-35 anni, dopo anni di silenzio e di rimozione, cominciano timidamente a porsi la questione della genitorialità trovandosi però del tutto impreparati ad affrontare un cambiamento di questo tipo. Altre coppie che invece ingaggiano interminabili diatribe sul tema del decidere, ed altre coppie ancora che, una volta deciso di fare un figlio, vivono momenti laceranti e disorientanti.

Il sentimento di “fondazione” che caratterizza lo spirito d’intraprendenza e d’innovazione dei neo-coniugi o neo-genitori, rischia così di essere meno presente nelle nuove generazioni.

Il lavoro dello psicologo (o psicologo-psicoterapeuta) diventa, nella chiave di lettura qui utilizzata, quello, preziosissimo ed insostituibile, del facilitatore nella comprensione dei nodi simbolici, ma anche di fluidificatore dei passaggi che individui, coppie e famiglie trovano difficoltoso affrontare. Lo psicologo non è certo colui che fornisce (il proprio) senso ad esperienze altrui, ma colui che consente ai propri clienti di rintracciarlo all’interno della propria storia e dei propri percorsi esistenziali.

Lo psicologo in realtà, in questa prospettiva, costituisce per il cliente quell’interfaccia istituzionale (o se vogliamo quella gruppalità o quello spazio culturale di appoggio) venuta a mancare capace di co-pensare una complessità di attribuzioni, di procedure e significati oramai demandati alla responsabilità individuale, una guida (o uno Stalker, per usare una metafora cinematografica) in grado di accompagnare le persone in territori sempre mutevoli ed incerti della nostra contemporaneità.

(Un ringraziamento speciale a Corrado Pontalti, inesauribile fonte d’ispirazione)