Il Decreto 3270 “in materia di professioni non regolamentate in Ordini o collegi” è passato. Le associazioni di counselor già strillano vittoria ai quattro venti. Molti colleghi psicologi ci scrivono, preoccupati, per sapere cosa accadrà adesso.
Mi sento di dire… tanto rumore per nulla… e ve ne spiego la ragione.
Il decreto 3270 possiamo vederlo, ad oggi, come un potenziale virus che, se non preso sul serio dai nostri Ordini professionali, potrebbe tra qualche anno portare un reale grave danno alla professione di Psicologo, a vantaggio delle esotiche pseudo-professioni tipo counselor, psicopedagogisti, reflector, ecc…
Ad oggi, da un certo punto di vista, potrebbe addirittura rivelarsi utile per ridestare l’attenzione degli Ordini sul tema della TUTELA (tema su cui AltraPsicologia si spende dalla sua nascita!) e compattare tutta la comunità professionale.
Una definizione naif di “professione”
Una necessaria premessa. Il decreto si basa su una definizione eccessivamente sintetica di “professione” come mera “attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi“. Una definizione connessa esclusivamente all’attività economica, all’avere un prezzo, in cui tutto e tutti possono rientrare.
E’ evidente che se avessimo definito “professione” come propone Dal Re “attività lavorativa non generica, altamente qualificata, esercitata da soggetti che hanno acquisito una competenza specialistica attraverso un iter formativo e un tirocinio destinato a tale scopo. La professionalità è collegata alla necessità di assicurare la tutela di alcuni beni fondamentali per la vita personale e sociale” ci troveremmo di fronte ad altre tutele e anche ad una maggiore coerenza con l’articolo 33 della nostra Costituzione, che prescrive un esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale, ciò perché si considera il “professionista” un soggetto cui vengono affidati dallo Stato beni di interesse pubblico, come ad esempio la salute dei cittadini.
La criticità del DDL 3270: chi controlla il controllore?
Il decreto 3270 crea un nuovo soggetto giuridico, le “associazioni professionali di natura privatistica“, ed assegna a loro stesse l’onere di verificare l'”indipendenza” della propria disciplina e la “buona fede e affidamento del pubblico” alle cure dei priori associati.
In pratica assegnano all’associazione professionale, che agisce secondo interessi e profitti personali, il compito di dire se è brava o meno, senza prevedere la presenza si un soggetto terzo e super partes (un Organo Garante esterno). Un clamoroso conflitto di interesse, svincolato dalle regole e dalle tutele del sistema pubblico e dalla formazione accademica.
Sintetizza così il presidente nazionale degli Psicologi Giuseppe Palma il principale pericolo di questa legge: “delegare completamente ad associazioni private l’individuazione dei requisiti necessari allo svolgimento di attività che potrebbero non avere alcun carattere professionale autonomo disegnando un sistema interamente autoreferenziale. L’applicazione di questo principio anche nell’ambito della salute significa che lo Stato abdica alla fondamentale funzione di responsabile della salute dei cittadini“.
La vera battaglia adesso si gioca sugli “atti tipici” dello Psicologo!
Fortunatamente la legge contiene già la possibile soluzione a questa deriva visto che esclude dal suo ambito le attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi, e tutto ciò che riguarda le professioni sanitarie.
Il decreto 3270 inibisce “l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale” (art. 2, comma 6).
In altre parole dice: “cara associazione professionale di counselor, tu puoi fruire di questo decreto legge a patto che la tua pratica professionale non si accavalli ad altre professioni già esistenti ed ordinate”
La vera battaglia si sposta quindi su una più puntuale ed operativa definizione degli “atti tipici” dello Psicologo, e delle “tecniche” che lo psicologo apprende in virtù della formazione accademica e specialistica: colloquio, tests, ecc.
In altre parole c’è da capire se il counselor sia di fatto un nuovo professionista o se invece, nascendo dalla Psicologia, essendo formato da psicologi su tecniche psicologiche, non sia sempre stato perfettamente descritto dalla legge 56 come “uno psicologo” e di questo debba avere la formazione, a tutela della pubblica fede e della salute dei cittadini.
Il testo dell’art. 1 della L.56/89 cita testualmente “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.”
Un articolo a maglie larghe che contiene possibili zone d’ombra in cui poter reclamare la nascita di nuove pseudo-professioni… un articolo a maglie larghe su cui – come psicologi – dovremo assolutamente lavorare, pena la cannibalizzazione della nostra professione da parte di queste pseudo-professioni.
I counselor non cantino vittoria, ma gli psicologi che si sveglino dal torpore!
Ad oggi quindi NULLA E’ COMPROMESSO! Detto ciò, gli psicologi debbono ricompattarsi e lavorare sul fronte della tutela e dell’operativizzazione degli atti tipici dello psicologo!f
In questi 23 anni di Ordine Psicologi i nostri governanti non hanno fatto nulla per chiarificare in cosa esattamente consistono gli atti tipici dello psicologo, le tecniche, gli strumenti.
Hanno lasciato fiorire decine e decine di scuole di specializzazione, gestite da psicologi, che – nelle stesse stanze, con gli stessi docenti, sugli stessi programmi didattici – formavano counselor, coach, reflector, psicopedagogisti clinici, ecc…
AUPI, SIPAP, MOPI, Cultura e Professione. Gruppi che nei loro Ordini regionali, in questi 23 anni, non hanno MAI arginato il fiorire di questo lucroso business formativo di quelle scuole a cui, durante le vigilie elettorali, chiedono il supporto per canalizzare i loro bacini di voti!
Come AltraPsicologia dal 2010 siamo al Governo dell’Ordine Psicologi Lombardia ed in pochi anni abbiamo prodotto una Carta Etica per le Scuole di Psicoterapia e vinto una battaglia legale sull’articolo 21 del CD (quello che impedisce agli psicologi di insegnare tecniche psicologiche a non psicologi) che potrà fare giurisprudenza per future situazioni… a patto che AUPI, SIPAP, MOPI, Cultura e Professione si sveglino dal torpore e comincino a tutelare fattivamente la professione!
Siamo felici che il Presidente degli Psicologi Giuseppe Palma nell’ultimo anno, anno e mezzo, si sia concretamente impegnato per fermare il decreto 3270. Come AltraPsicologia siamo pronti, da domani, a sostenere le azioni del nostro Consiglio Nazionale a tutela della professione. Ma non possiamo tacere sul lasso e miope governo di questi 23 anni.
Quali i prossimi passi da fare?
La legge che è passata introduce elementi di tipo anglosassone, liberisti in una società complessa e un pò furbacchiona e ruspante come quella italiana.
Il pericolo dell’autoreferenzialità in tema di salute pubblica è certo presente e preoccupante. Tuttavia letteralmente la legge contiene in sè tutti gli anticorpi necessari a sconfiggere le malattie sociali che potrebbe creare.
Tutto sta alla serietà con cui si valuterà la sovrapposizione delle nuove professioni con le professioni esistenti e ordinate, e la tutela della fede e della pubblica salute.
La figura del “terzo garante” (lo Stato) si rivelerà indispensabile nel regolare il traffico delle associazioni e delle sedicenti professioni, perché questa legge non diventi una gigantesca istigazione a delinquere e dia origine a un’ondata di esercizio abusivo di tutte le professioni possibili senza precedenti.
L’azione congiunta, corale, compatta dell’Ordine Psicologi Nazionale, degli Ordini regionali, dei vari gruppi politico professionali, degli psicologi tutti sarà determinante!
Dovremo riuscire ad elaborare e definire con rigore, scientificità e chiarezza quelle che sono le competenze, le tecniche, gli strumenti e gli atti tipici dello psicologo.
Dovremo farlo nel breve periodo e dovremo poi agire in modo efficace nei luogo istituzionali deputati a decidere se ciò che reclamano queste pseudo-professioni non sia, di fatto, già proprio ed esclusivo della professione di Psicologo!
sono d’accordo con l’articolo che, FINALMENTE, fa chiarezza: la legge distingue tra professioni ordinistiche e il miscuglio di non meglio precisate attivita’ economiche.Di quest’ultime ne risulta regolamentata l’organizzazione e non i contenuti della prestazione. La psicologia resta degli psicologi. In una parola: chi grida che con la 3270 siamo alla caporetto fa controinformazione e collude con l’ interpretazione gradita alle pseudoprofessioni. Cari colleghi, Il pericolo piu grave non e’ la nuova legge ma sono i vecchi notabili della nostra professione che in 23 anni non hanno impedito (e,spesso, favorito) il proliferare di queste posizioni chiaramente contra legem. Il pericolo, anzi il nemico, e’ tra le fila della nostra professione. Adesso possiamo riconoscerli e usare con coscienza l’arma democratica del voto, mandiamoli A _ _ _CASA! !! SI! il futuro nella tua mano.
Bè Mauro, per fortuna non siamo agli albori rispetto alla definizione degli Atti Tipici. Come ben sai, ho licenziato questo novembre insieme al Gruppo Atti Tipici che coordino al CNOP ( di cui fa parte anche Luca Pezzullo) un Parere che ritengo sarà di grande utilità e dirimente rispetto a confini professionali, processi, competenze, tecniche tipiche della professione di psicologo.
Credo che oltre agli “atti tipici” della professione si debba guardare all’area di intervento e agli effetti. Ad esempio, il sostegno psicologico e’ riservato agli psicologi, quindi il counselor, a mio modo di vedere non può lavorare con persone che presentano disagi psicologici. Non parlo di psicopatologie, sulle quali il counselor non può intervenire (attacchi di panico, ecc.) ma anche in casi dove si interviene con il sostegno o la prevenzione, per non parlare ovviamente della diagnosi e riabilitazione. Ad oggi credo che la maggior parte dei counselor fanno abuso di professione, perché la gente che ci va ha bisogno almeno di sostegno psicologico. Secondo me se ben sfruttata questa legge può essere una risorsa. Che l’ordine vigili che quando le associazioni stileranno le competenze non invadano l’area di intervento dello psicologo e delle professioni sanitarie (prevenzione, diagnosi, cura).
Dobbiamo lottare per far si che gli atti tipici siano a conoscenza dei cittadini più che della politica! fare campagna pubblicitaria su cosa faccia lo psicologo e sulle truffe dei finti psicologi. sulle truffe che non ci sono in altri ambiti professionali e che invece qui proliferano molto!
La mia riflessione deriva da alcune esperienze. Mi sono trovata a occuparmi di counseling in diverse occasioni: come coordinatrice e consulente del servizio di counseling dell’Università del Salento e come Direttore Scientifico di un Master per Consulente alla gestione delle risorse umane. Il ruolo di consulenza appartiene a diverse professioni: giuridiche, economiche, umanistiche ecc. Ciò che è utile individuare è lo specifico della consulenza psicologica, quindi il quesito è: “può un non psicologo offrire una consulenza psicologica? Con quali metodi e strumenti?”. Se la nostra formazione ci consente di utilizzare metodi e strumenti specifici, come potrebbe un non psicologo fare altrettanto? Quindi la questione è: la corrispondenza fra un sapere, una conoscenza e competenza da un lato e un saper fare dall’altro. Il nostro sforzo va dunque orientato in questa direzione: individuare la specificità del counseling psicologico per differenziarlo da altre forme. E’ anche necessario trovare una maggiore omogeneità nelle definizioni e nelle prassi, se le differenze all’interno della professione sono a volte superiori a quelle che possono esserci nei confronti delle altre, allora diventa veramente difficile individuare questo spartiacque.Oltre a ciò lo sforzo va poi orientato a rendere ostensibile il prodotto dell’attività psicologica, a partire dalla possibilità di definire prima e verificare dopo, insieme al nostro cliente, l’obiettivo e il risultato dell’azione professionale.
Ma praticamente il tutto il mondo (in Europa come in USA, ecc.) esistono libere associazioni di professionisti (in tutte le professioni) in un vero libero mercato (non comunista, ma liberale), in cui ciauscna associazione professionale non si autoleggitma in CORPORAZIONE MONOCRATICA per decreto arbitrario dello Stato, rendendo la professione una sorta di massoneria. Si legittima invece per i criteri che adotta per il suo accesso e per la qualità dei proessionisti che accoglie in base alle sue regole e al suo iter di formazione e di aggiornamento. E sarà poi la qualità scintifica (come in ogni campo della scienza) e l’utenza a legittimarla o meno. Basta che lo Stato determini per legge dei criteri minimi sufficienti: e poi devono prevalere la libertà della cultura, e della scienza e delle libere professioni (Come appunto e non a casi si chiamano), come in tutto il mondo civile e libero. Ciò aprirà più spazi legittimi e legali nel lavoro e creerà la necessaria concorrenza per l’innalzamento degli standard qualitativi professionali, come del resto in qualsiasi campo.
Ipotizziamo che la legge 14.1.2013 non venga modificata e che i counselor siano leggittimati ad esercitare la loro “professione”, lo scenario futuro sarà il seguente: meno iscritti a psicologia, meno iscritti all’esame di Stato, meno iscritti all’Ordine degli psicologi, boom delle iscrizioni alle scuole di specializzazione private. Infatti voglio proprio vedere chi sarà quel fesso che studierà 7 anni con i relativi costi (5 anni di percorso universitario, due tesi di laurea + un anno e mezzo di tirocinio + un esame di Stato che è tra i più impegnativi tra quelli esistenti). Io sono passata attraverso il massacro di 3 regolamenti cambiati in corso d’opera durante il mio percorso universitario, 2 regolamenti sul tirocinio che mi hanno fatto perdere 2 anni . La mia amara conclusione è che non lo rifarei di certo; Se dovessi scegliere oggi mi iscriverei sicuramente ad un corso triennale di Counselor, risparmiando tempo e danaro. Viviamo in un paese dove l’impegno e la serietà vengono regolarmente calpestati . Tutto questo è veramente poco serio, è semplicemente italiano.
Ecco, se l’analisi sociologica mi può anche trovare d’accordo, non vedo perché i cittadini onesti, impegnati e desiderosi di offrire una vera professionalità dovrebbero piegarsi alle logiche della scorciatoia: mica perché esistono molti furbi, si vede a nostra volta diventare furbi!
Anche perché la furbizia paga sul breve periodo, la qualità sul lungo.
Ricordo un dato di realtà che a volte dimentichiamo: gli ordini professionali degli psicologi sono pieni di segnalazioni di attività truffaldine pseudo-psicologiche, esercitate con danno alla popolazione da parte di sedicenti professionisti con corso triennale in tutto quel che è corsaBile. Di solito vengono interessati i NAS, perché la questione non è difendere una categoria dalle altre, ma difendere la gente dai truffatori.
Svegliamoci colleghi!!!
I counsellor, nel chiuso dei loro *studi* e avvallati dagli psicologi che li hanno formati e/o quelli che si fanno affiancare (inizialmente, poi li lasciano lavorare da soli con i propri pazienti) per quelle che chiamano *consulenze*, trattano attacchi di panico, ansia, fobie…di tutto e di più.
Li hanno addestrati molto bene a non pronunciare mai i termini *terapia* e *pazienti*, sostituendoli con *percorsi di aiuto* e *clienti*.
La disinformazione degli utenti è grande ed il Decreto 3270 non fa altro che legittimare tutto questo bailamme.
E smettiamola di paragonarci all’Europa…qui siamo in Italia ed i presupposti formativi e professionali sono diversi da quelli europei, che ci piaccia o no!
Che ne sappia io il counseling negli USA si chiama “Counseling psicologico” e ci vuole un Phd o Psy.D.
Come si fa a voler permettere di praticare atti sanitari a qualsiasi persona? Come si può prendere con così leggerezza il lavoro di uno psicologo? Lo si farebbe anche con un chirurgo, un odontoiatra o un medico di base o specialista? Gentile dott. Foscarini, non capisco la sua logica. A pagarne sarebbero anche i cittadini, e la loro salute.
@Foscarini: …mi scuso, ma quando inizio a leggere premesse come “il mercato del lavoro comunista che abbiamo in Italia”, ammetto che il mio interesse per le conclusioni scema rapidamente. Forse è un limite mio, da un lato; ma credo che la premessa sia profondamente errata.
Gli Ordini e i problemi delle professioni c’entrano con il “comunismo” (sigh…) come i cavoli a merenda.
E la “libertà” non è certo poter fare “tutto quello che mi auto-autorizzo a fare da solo”, magari sulla salute altrui. La libertà parte *sempre* da una base di criteri chiari, solidi, condivisi.
Non dal “chi vuol fare qualcosa si auto-autorizzi pure a farlo”: quella è la parodia della libertà, perchè non la coniuga alla responsabilità (che nella mia scala personale viene prima di tutto il resto).
Meglio informarsi bene su come, ad esempio negli USA, sono regolati i criteri di accesso alle associazioni di categoria in area counseling, o psicoanalisi. Diciamo che perfino lo studio di 4-5 anni di Psicologia in un’Università prestigiosa potrebbe non essere sufficiente come criterio di partenza, per certi Professional Board statunitensi…. altro che i corsetti privati di qualche fine settimana che alcune di queste realtà propongono per “accreditarsi” come “coachcounsellormediatorepsicoqualcosa” o quant’altro.
Premetto che sono uno psicologo e con il tempo ho cambiato molto le mie idee in materia di professioni…Il centro che abbiamo fondato assieme ad altri giovani colleghi (tutti psicologi) non riesce spesso a far fronte alla quantità di richieste da parte degli utenti…Non penso di essere modesto dicendo che ciò accade perchè siamo bravi e in una professione come la nostra non conta la carta straccia rilasciata dagli ordini o dalle università, ma il passaparola. Spesso, troppo spesso si sottovaluta la capacità di giudizio degli utenti che vengono purtroppo considerati idioti senza capacità di discernere ciò che li fa star bene, ciò che giova realmente alla loro vita…Ergo io non ho paura della concorrenza, seppure sleale…Chi la teme così tanto è solo e unicamente un professionista che non riesce a svolgere dignitosamente la propria professione e si vuole arroccare su leggi, leggine e cavilli per essere tutelato…Non può essere un ordine professionale l’ente che ci tutela, ma noi stessi con la nostra professionalità e la nostra competenza…
sono psicologa e psicoterapeuta. Esistono scuole di counseling serie che ammettono ai loro corsi solo laureati. Quindi il corso di counseling diventa una sorta di “specializzazione” che aiuta il docente, l’avvocato a fare meglio il loro lavoro, e così l’assistente sociale, ecc.. Si tratta come già qualche intervento sottolineava di porre una chiara linea di demarcazione tra il lvoro del counselor e quello dello psicologo.
@Paolo: non ci siamo capiti. Il problema non è la “concorrenza che porta via il lavoro agli psicologi che non sanno fare il loro mestiere”. Il problema è il potenziale esercizio abusivo rispetto ai clienti/utenti male informati, con i relativi, possibili, rischi per la loro salute.
Prendi dieci persone per strada, a caso, e chiedi loro di spiegarti la differenza tra (ad esempio) psicologo, psicoterapeuta, psichiatra, psicoanalista, psicanalista laico, counsellor, counsellor relazionale, counsellor olistico, coach, coach emotivo, psicopedagogista clinico. Quanti sono in grado di articolarla realmente ? Quanti sono in grado di discriminare in maniera corretta tra chi ha un titolo realmente “abilitante”, con precise garanzie formative pubbliche, e chi un titolo solo “suggestivo” ? Siamo sinceri.
Lo Stato, in questioni di Salute, deve fornire garanzie e tutele a tutti i cittadini della Repubblica (e si tratta di un obbligo di rango Costituzionale): una di queste è il fatto di essere certi che “chi mette mano” alla salute, fisica e psichica, sia adeguatamente formato e abilitato a tali delicate funzioni; e questo ovviamente non comprende il corso di qualche fine settimana per persone con la terza media, o simili amenità.
E’ questo il ruolo di quelle che tu definisci, a mio parere impropriamente, “leggine e cavilli”: tutelare realmente la salute pubblica e la corretta informazione all’utenza.
E su questo non esistono compromessi.
…non capisco: in Inghilterra vige l’auto-regolamentazione a cura della associazioni professionali (anche per gli psicologi), da sempre in vigore e mantenuta dal governo Cameron. Il dato sull’abusivismo è irrisorio (e appunto non giustifica una stretta “autorizzatoria” e centralistica) e la salute pubblica non sembra soffrire conseguenze di rilievo. Il cittadino medio conosce le sigle di quelle che son ritenute le migliori associazioni professionali e così i datori di lavoro (se vuoi lavorare nella sanità, sarai accreditato almeno dalla BACP, dall’UKCP o dall’HCP…) e si rivolge da chi vuole. Certo, siamo d’accordo che la preparazione media del professionista è assai più alta che in Italia (ma non vi è obbligo di laurea in psicologia, perché counselling e psicoterapia non sono percorsi riservati psicologia). Che hanno gli Inglesi meno di noi, che non sono preoccupati di avere uno Stato che tuteli e garantisca? Intanto per iniziare hanno meno psicologi (36mila), e questo aiuta.
Concordo in pieno con quanto scritto da Luca Pezzullo e un pò per stanchezza un pò per i miei prossimi 50 anni sono delusa da molti di noi che non hanno una visione chiara di cosa è giusto e cosa non lo sia.
Io personalmente mi sono sempre battuta quando vedevo confusione o ipocrisie in occasione di corsi di formazione o in congressi…ma ho avuto poco seguito e sostegno.
Il fatto di essere bravi o non bravi non è una giustificazione ad una concorrenza più che sleale e all’italiana. Inoltre direi a Luca che anche i medici non conoscono le differenze fra vari “profili”.
Buon anno a tutti!
Appoggio anch’io quanto espresso da Luca in entrambi i suoi interventi. Qui si fa confusione su concetti basilari come “libertà”, “responsabilità professionale”, “tutela della salute”.
Allora perché non aboliamo gli Ordini professionali? Se non posso godere di alcuna tutela, perché dovrei accettare i vincoli imposti dall’appartenenza all’Ordine? Perché aderire alle regole di deontologia o in merito alla pubblicità o al codice di condotta sull’uso dei nuovi media? Perché versare una quota di iscrizione annuale e legarmi alla Cassa previdenziale stabilita per me?
Se libertà vuol dire “fare ciò che si vuole” perché noi psicologi dovremmo rinunciare alla nostra?
Parliamo di concorrenza, clienti, risvolti economici e non ci preoccupiamo delle PERSONE. Conosco da vicino counselor che si muovono senza scrupoli su un terreno decisamente minato. Ricevono “clienti” di ogni tipo che presentano le più disparate necessità e che, come ha detto qualcuno fra i commenti che ho letto, necessitano COME MINIMO di consulenza psicologica.
Il counselor dovrebbe anche avere la competenza per fare un’accurata analisi della domanda e lo spessore morale per indirizzare il cliente al professionista di cui necessita quando si rende conto di non essere lui la figura idonea…PURA FANTASCIENZA!
Mettiamoci anche la disinformazione dilagante sulle specifiche figure professionali e gli specifici approcci e, non ultima, la crisi economica che mettono gli utenti nelle condizioni di essere maggiormente disposti ad affidarsi a un professionista che promette risultati concreti in tempi ristretti con una spesa contenuta piuttosto che imbarcarsi in un percorso ritenuto (spesso erroneamente) lungo, dispendioso e dai risultati incerti.
Facile che pseudo-professionisti e venditori di fumo si approfittino della situazione e il cliente potrà, certo, accorgersi a un certo punto di aver fatto un errore ma quale prezzo (non solo economico) avrà pagato nel frattempo? Non vogliamo sottrarre ai singoli la capacità di discernimento ma non possiamo dimenticare che le Wanna Marchi che popolano il nostro paese sono riuscite e riescono a estorcere centinaia di migliaia di euro vendendo talismani e bustine di sale!
Se esistono counselor seri, preparati, aggiornati, sicuri di svolgere una professione che non si sovrappone ad altre, usando metodi e strumenti propri…beh! Dovrebbero essere i primi a spingere affinché anche la loro professione sia regolamentata e preveda percorsi professionalizzanti specifici così da ritagliarsi uno spazio riconosciuto e liberarsi dal fardello della feccia che approfitta dei vuoti normativi e informativi per speculare fregandosene della ricaduta sulla vita e sulla salute delle persone.
Dal canto nostro dovremmo lottare per colmare i vuoti d’informazione. Se l’Ordine DEVE agire come istituzione, noi tutti possiamo fare qualcosa ogni giorno non solo svolgendo al meglio il nostro lavoro ma anche trasmettendo un’idea meno contorta della nostra professione, avvicinando la psicologia alle persone, creando familiarità e fiducia nei confronti della figura dello psicologo.
Non capisco come mai ci si sorprenda oggi così tanto se gli psicologi insegnano ai counsellor e se poi questi vogliono essere riconosciuti competenti per quanto hanno appreso.
Dopotutto è da molto tempo che la psicologia in generale e soprattutto tecniche molto specifiche vengono insegnate anche agli altri professionisti, talvolta sono proprio gli altri professionisti a trarne maggior utilizzo.
Vogliamo parlare di tutti i master afferenti alla facoltà di psicologia a cui si iscrivono gli altri “non psicologi”, io ne ho fatti più di uno e oltre a noi c’erano ass. sociali, educatori, medici e altro, perchè queste persone una volta imparata una tecnica non dovrebbero poi metterla in pratica?
E’ vero che per gli psicologi la formazione è diventata forse la maggior fonte di reddito ma non è certo iniziata formando questi counsellor.
Visto che si fanno sempre paragoni coi medici andiamo a vedere se i loro master sono aperti a tutti o invece non tutelino le loro competenze, io credo che sia dalle università che bisogna cominciare a definire ciò che è di esclusiva competenza dello psicologo.
Sono d’accordo con Davide. Atto tipico della professione di psicologo non dovrebbe mai essere l’insegnamento, se non in ambito universitario. Per insegnare occorrono professori, basta con tutti questi corsi! Lo psicologo deve curare i pazienti, non guadagnare insegnando qui e lì! Se poi devono esistere questi counselor si formassero con dei docenti counselor. E non dimentichiamoci di vedere i problemi che abbiamo in casa, forse qualche psicologo dimentica quali sono gli atti tipici degli psicoterapeuti!
Credo che sarà molto difficile in futuro poter definire una linea di separazione tra quel che fa il counsellor e quel che invece può fare solo lo psicologo.
E poi alla fine è solo un gioco di potere che delimita i confini della scienza che invece è una sola, parliamo di come un laureato in medicina abbia il diritto di iscriversi a una scuola di psicoterapia quando nella sua formazione ha fatto solo un esame di psicologia? Non ne avrebbero più diritto gli educatori o gli assistenti sociali che nel loro percorso di studi hanno “masticato” sicuramente più psicologia?
Tempo fa dissi che secondo me in futuro la psicologia qui in Italia si sarebbe avvicinata molto a certe materie come la filosofia o la sociologia le quali sono considerate più ausiliarie che delle professioni vere e proprie. Vedremo se mi sbaglio. So di essermi espresso male ma l’ho buttato giù di getto e forse capite lo stesso quel che volevo dire.
Certo, mi verrebbe una considerazione un po’ amara: “Che cosa fa il counsellor? Fa… danni”. Questo perché ormai ho presente parecchi casi di persone che per ignoranza, incoscienza o semplice sfortuna sono capitati sotto una di queste figure pseudoprofessionali. Per dirla in breve, non è esatto dire che i counselor non trattano la psicopatologia, fanno di peggio: fanno finta che non esista. La conseguenza è presto detta: la persona si ammala ancora di più. Dunque qui si parla del fatto che queste professioni sono iatrogene. Perché da noi è così e all’estero forse no? Ha ragione chi fa riferimento alla particolarità della nostra situazione italiana, che sembra organizzata (si parla tanto di welfare), in realtà è soltanto caotica (basta lavorare un po’ nei servizi per capirlo) e contraddittoria (vige un “doppio binario” pubblico-privato aberrante); le competenze sono confuse (medici che fanno i terapeuti, psicologi che fanno i medici “alternativi”, counselor che fanno gli psicologi…). In questo marasma, i clienti/pazienti spesso sprovveduti al pari di molti curanti navigano a vista, affidandosi a internet se non sanno a che santo votarsi e capitando nelle mani di chi promette miracoli. Ma vi sembra che possa funzionare una cosa così?
Già e poi ci dimentichiamo che con un weekend “intensivo” puoi diventare “coach” e fai sia il counselor che lo psicoterapeuta. In un paese dove le farmacie e i notai sono a numero chiuso, non potremmo pensare che la difficoltà di tanti di noi di lavorare sia creata da una non programmata proliferazione di psicologi?
Davvero in un weekend si può diventare counselor?
” non potremmo pensare che la difficoltà di tanti di noi di lavorare sia creata da una non programmata proliferazione di psicologi?”
Ormai è troppo tardi pensarci ora, la Facoltà di Medicina sforna circa 300 medici l’anno, 30 fisioterapisti, 30 dentisti, logopedisti, ecc. ecc. proprio perchè fanno un’accurata previsione di quanti potranno essere assorbiti dal mercato, stessa cosa per gli assistenti sociali.
Probabilmente di psicologi nuovi ne basterebbero 100 all’anno invece ne escono circa mille.
Per diventare coach basta un weekend. I counselor devono fare almeno tre anni e 450 ore di corso, un collega lavora per una di queste associazioni e tra lezioni e percorsi di psicoterapia guadagna decisamente bene(pare che molte scuole “gestite” da colleghi promuovano la crescita personale). Comunque la salute mentale è una cosa seria e anche il nostro Ordine dovrebbe essere molto più rigoroso, controllando e radiando quei colleghi (e non sono pochi!) che pur avendo tutti i requisiti fanno danni o, quando va bene, portano avanti le terapie in funzione dell’onorario e non del paziente. Meno nuovi psicologi e tagliare i rami secchi ecco come rilanciare la professione!
Chiunque, esercitando la sua professione procuri un danno a una persona deve essere punito a norma di legge, inoltre tutte le associazioni e gli ordini devono dimostrare di saper espellere i professionisti che non operano nell’esclusivo interesse dei loro clienti.
Quello che succede all’interno di una relazione professionale dove un professionista e un cliente si trovano nella più totale intimità e fiducia é talmente delicato che mette a rischio l’esercizio della professione anche con lauree e preparazione pluriennale.
Il problema che pongo é: cosa viene misurato e certificato quando uno psicologo prende la sua laurea? Cosa quando diventa psicoterapeuta? La facoltà di psicologia attrae per elezione una quantità notevole di persone con problemi psicologici e disturbi di personalità le quali scelgono Psicologia cercando una soluzione ai loro problemi prima ancora che per diventare professionisti, ma nessun esame viene fatto per attestare se quei problemi con cui sono arrivati all’università si siano mai risolti. La selezione, se deve essere fatta, va fatta in questo senso.
Ho conosciuto psicoterapeuti/psicologi talmente “bisognosi” che gli unici amici che frequentano sono i loro pazienti/clienti, continuo a sentire di terapie che durano anni senza un preciso senso ne una previsione di fine, avance sessuali fatte dallo psicologo nel pieno del rapporto terapeutico… mi piacerebbe sapere quanti degli iscritti all’ordine sono stati espulsi negli ultimi 3 anni, in particolare quanti per denuncia di un collega. Almeno sapere dove si possono trovare questi dati.
Fare pulizia e mettere ordine nell’ordine, permetterà poi di guardare il bruscolo nell’occhio dei counsellor o del pedagogo. Inoltre, se gli psicologi continueranno a voler fare di tutto, il tutto gli ritornerà in casa. Dite chiaramente di cosa vi occupate, definite dei confini che siano validi anche per voi. Non se ne può più di sentirvi dire che per assumere una persona deve esserci uno psicologo, per insegnare a bambini diversamente abili serve lo psicologo, per dimagrire serve lo psicologo, per scegliere il nuovo arredamento serve lo psicologo, per cambiare lavoro serve lo psicologo, per fare il coach agli adolescenti in tv serve lo psicologo… a proposito qualcuno di voi ha denunciato all’ordine i due psicologi che fanno i coach nella trasmissione “Adolescenti istruzioni per l’uso”? Vi sembra che rappresentino opportunamente la professione? Mi sbaglio o sono proprio gli psicologi che confondono il pubblico con il loro trasformismo?
Mai sentito parlare di DANNI IATROGENI colleghi Psicologi e non?
“[…] Qualunque figura professionale può essere chiamata a rispondere, davanti alle competenti autorità giudiziarie, dei cosiddetti “danni iatrogeni”, ossia dei pregiudizi alla salute, direttamente imputabili ad erronee indicazioni e prescrizioni.
L’Art. 2055 del C.C. viene applicato in molto ambiti ed anche nei casi di danno iatrogeno, causato da imperizia dell’operatore.
Prendendo come base alcuni punti delle linee guida del codice deontologico degli psicologi, ci si deve assicurare che tutti gli operatori nel ambito medico e dell’aiuto psicologico facciano riferimento a tali indicazioni, al fine di garantire la correttezza e la leicità del loro operato […] (tratto da un mio articolo sull’argomento…).
Detto questo una riflessione sorge spontanea…
Se possono incorrere in tali gravi errori professionisti che hanno studiato per anni (per chi vuole fare terapia non meno di 10, visto che dopo la laurea quinquennale in Psicologia o la ben più lunga in Medicina e Chirurgia è obbligatorio diventare Psicoterapeuti con un percorso di 4 o 5 anni), in percentuale quanto è possibile che vi incorrano “personaggi” che hanno avuto una preparazione breve o brevissima in materia (da 450 ore a non più di tre anni, ma strutturati a week end e senza dover superare esami di alcun tipo, se non disquisire su una pseudo tesi finale e l’attestazione di uno pseudo-tirocinio), frammentaria ed incompleta, rispetto a tutto ciò che concerne la Psicologia appunto?
Credo che la risposta venga da sè.
Il termine counselLing dovrebbe indicare un’attività professionale che tende ad orientare e sviluppare le potenzialità di un cliente, soggetto non portatore di nessuna psicopatologia,quindi non paziente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta. Si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali) e contestualmente circoscritti. Tale attività può portare a “danni iatrogeni”, ossia dei pregiudizi alla salute, direttamente imputabili ad erronee indicazioni e prescrizioni? L’importante in questa questione è che gli psicologi Albo A e riterrei anche Albo B, considerando che l’attività di counselling non ha niente che possa sovrapporsi con le competenze della psicologia clinica, della psicopatologia e della psicodiagnostica,possano operare ed applicare anch’essi il counselling, senza doversi iscrivere ed attenersi alle regole di queste associazioni,è essenziale che l’ordine si batta per questo e non arroccandosi in posizioni austere ma anche un pò retrò. Conosco personalmente laureati in scienze politiche che operano nella formazione aziendale e si occupano di coaching( che non si differenzia in niente rispetto al counseling) e mentoring e non hanno fatto i nostri tirocini e nostri sudati albi
La risposta alla tua domanda (può portare a danni iatrogeni?) è SI’.
Per inciso: la distinzione con una o due elle è meramente geografica. La counseling psychology americana e il counselling britannico hanno storie e modelli diversi di riferimento, ma sono di fatto accostabili nella pratica e nel contesto operativo.
Perché può portare a danni iatrogeni? Perché i counselor non psicologi non sono in grado di fare una valutazione della personalità del cliente – e i clienti che si rivolgono loro si rivolgono per forme molto varie di disagio psicologico, sociale ed esistenziale. I counselor non psicologi in genere non sanno riconoscere una condizione psicopatologica e soprattutto non sanno riconoscere le condizioni subcliniche che accompagnano la domanda; se poi sono anche senza scrupoli – dato che la deontologia e l’etica della professione è poco sviluppata (altrimenti non invaderebbero il campo psicologico) semplicemente fanno finta di non vedere.
PS Ovviamente, per ovviare al danno iatrogeno, ci sono soluzioni possibili: una è che il counselor operi su parere di un professionista medico o psicologo, non “al posto di”.
tutti protezionisti ? gli psicologi innanzitutto devono” mangiare”,curare, chi l’ha detto ? un po’ più di fantasia, forse all’americana o alla francese. Perché chi si occupa di psicologia economica o politica,settori emergenti della psicologia, cura?
Gentile Rossella,
ma infatti gli psicologi possono ovviamente “fare counselling” senza bisogno di iscriversi ad alcunchè… 🙂
Essendo il counselling la traduzione inglese di quelle che in Italia sono chiamate le attività di sostegno/formazione/consulenza psicologica, ivi comprese le attività di promozione del benessere emotivo e relazionale, semmai è il problema è proprio l’opposto: il fatto che molte figure si sono purtroppo cercate di introdurre in contesti professionali delicati, che richiedono invece competenze teoriche e metodologiche qualificate e qualificanti (a tutela dell’utenza in primis, e questo va evidenziato). Pertanto, come psicologa, puoi ovviamente fare tutto il “counselling” che vuoi 🙂
Non è corretto. Il Counselling non è la “traduzione inglese” delle attività dello psicologo nostrano. L’attività di Counselling (negli USA così come in UK o Irlanda) non a caso viene definita generalmente “therapy”. La definizione della BACP (ma si veda pure anche quella dell’America Counseling Association) è: ‘Counselling and psychotherapy are umbrella terms that cover a range of talking therapies. They are delivered by trained practitioners who work with people over a short or long term to help them bring about effective change or enhance their wellbeing.’ Basti questo a capire quanta confusione vi sia in Italia su cosa sia il counselling e quale formazione-preparazione debba avere chi lo pratica.
vero, infatti il counseling italiano non è per nulla il counseling inglese
Giovanni, scusa, ma hai appena descritto quella che, nella sostanza, è appunto l’attività professionale psicologica (se non anche psicoterapeutica, che per l’ordinamento italiano è funzione ancora più protetta)…
Buonasera. Non comprendo tanta avversione contro i counsellor. Sono psicologa clinica regolarmente laureata e anche counsellor con formazione triennale…ecc…sono due professionalità” completamente distinte . Non sarà”paura d
I alcuni psicologi incompetenti che gia’ in radice confondono ruoli? Negli usa tutti hanno capito da tempo che counsellor e psicologi non hanno elementi comuni e pertanto appartengono ad ambiti professionali distinti!!!! Si lascino altrove i litigi per area ed ognuno pensi alla sua!
Negli Stati Uniti si vendono armi, in Italia no. Nel regno unito si guida a sinistra, in Italia a destra. Le differenze fra i paesi derivano dalle specifiche storie, non perché alcune scelte siano migliori o peggiori in assoluto.
In altri paesi sono in vigore diverse forme di regolamentazione delle professioni, perché c’è stata una storia molto diversa nel loro sviluppo. In Italia, la storia dello sviluppo delle professioni in area psicologica è stata regolamentata dalla Legge 56/89 e dalle norme in materia di specializzazioni psichiatriche mediche. Questo il dato di fatto da cui partire.
Da questo dato normativo, ne discende che la confusione di ruoli è ad opera di chi equipara una professione regolamentata dalla Legge per tutelare il diritto alla salute dei cittadini, e un’attività del tutto privatistica, priva di garanzie se non da parte di alcune associazioni private.
“Negli usa tutti hanno capito da tempo che counsellor e psicologi non hanno elementi comuni e pertanto appartengono ad ambiti professionali distinti!!!!”
Ecco, ammetto che quando leggo questi “slogan” rimango purtoppo abbastanza basito. Sarebbe il caso di verificare i fatti (il cosiddetto “fact-checking”), prima di diffondere simili gravi inesattezze. NON è vero che negli USA (o in UK) il percorso psicologico e quello di counselling siano separati, o considerati diversi, o afferiscano a percorsi formativi differenti. Lo “psychological counselling” è infatti funzionalmente equivalente, in quei paesi, al nostro “sostegno psicologico”; il “clinical psychologist” è equivalente funzionalmente e formativamente, ai nostri “psicoterapeuti”. Attenzione a non farsi trarre in inganno dai nominalismi… Basta guardare i criteri richiesti dalle associazioni/società di counselling nei vari Stati degli USA (California in primis, la patria del counselling…) per poter fregiarsi di tale qualifica, per rendersi rapidamente conto che per fare counselling è appunto necessario un prolungato percorso formativo UNIVERSITARIO di PSICOLOGIA, debitamente certificato. Dunque, di cosa stiamo parlando?
Buongiorno Luca, per rimanere in tema di fact-checking… Quello che sostieni che avvenga in USA è assolutamente falso. Negli Stati Uniti, per diventare counselor, occorre: un percorso universitario quadriennale in qualunque disciplina (matematica, letteratura, architettura, psicologia, etc.) a cui aggiungere un percorso biennale di counseling. Totale formazione: 6 anni.
In Italia i percorsi di counseling sono triennali, che il più delle volte diventano quadriennali con l’anno di tirocinio supervisionato. Stiamo andando nella direzione di richiedere, come titolo di ingresso, una laurea triennale in in qualunque disciplina. Totale formazione: 6 anni…
Al momento, pur continuando ad essere valida la richiesta del diploma di scuola media superiore come titolo di ingresso, abbiamo oltre il 65% dei nostri associati che – di fatto – è in possesso di laurea (triennale o quinquennale).
Cordiali saluti
Carissimo Nicola, sono perfettamente d’accordo sul dover tutelare la nostra professione; non capisco sino in fondo come la tutela non parta dall’Ordine Nazionale che, per quanto io sappia non lo fa,quanto piuttosto pensa a interessi che non siano quelli dei tanti iscritti.
Ti ringrazio per le tue comunicazioni e iniziative.
Michele D’Andreagiovanni
Tommaso, mi spiace, non è proprio così.
In Italia fa il “counsellor” chiunque voglia autodefinirsi tale, dopo qualunque corso privato, senza alcun titolo universitario; in California (patria del counselling umanistico…), o hai una media 6-9 anni di qualificazioni accademiche riconosciute di area psicologica, più migliaia di ore di supervisioni e tirocini, più un esame pubblico finale, o non entri in nessun “board di counsellors”.
Differenza abissale.
Anche perchè in California sanno benissimo che il counselling è, nella sostanza, proprio un’attività di sostegno psicologico-clinico, ovvero quella per cui in Italia è obbligatoria la laurea quinquennale in psicologia più l’esame di stato come Psicologo.
Tanto per mettere i puntini sulle i.
Luca, continua a non essere così, ma occorre fare un po’ di chiarezza, perché troppi argomenti insieme portano con sé confusione per chi legge.
a) Formazione statunitense: non è come tu dici e soprattutto non esistono quelle che tu chiami “migliaia di ore di supervisione e tirocini”. Inoltre i board negli USA esistono e come! Prova a lavorare senza essere certificato da un’associazione come l’ACA, ma solo con la licence… Se può esserti utile ti suggerisco la lettura di questo articolo scritto da un docente universitario statunitense nonché dirigente dell’ACA. Questo è il link: http://www.assocounseling.it/approfondimenti/articolo.asp?cod=872&cat=APPRO
In California (così come in Italia e anche in molti altri paesi come l’Inghilterra e l’Australia) sanno benissimo la differenza tra il counseling psicologico e quello non psicologico, tant’è che i requisiti di accesso sono diversi.
Ma, soprattutto, NON è richiesta una formazione universitaria ti di tipo psicologico.
b) Situazione italiana: in Italia il counseling non ha una regolamentazione, così come molte altre professioni. Sarebbe alquanto miope non accorgersi che ormai il doppio binario (professione regolamentate / professioni non regolamentate) è una realtà. Può non piacere (e ci mancherebbe!), ma ormai l’equazione che “siccome non hai un Ordine allora non conti niente” è obsoleta.
Le professioni non regolamentate (come il counseling) stanno percorrendo la loro strada e semplicemente ritengono non utile per il proprio sviluppo essere incastrata da una Legge di ordinamento (strumento obsoleto e ormai non più utile).
Tommaso, mi spiace, ma purtroppo non è così.
In California (cito questa visto che abbiamo iniziato a parlarne, ma si può estendere anche a molti altri Stati USA), per fare il counsellor ti servono proprio da 1500 a 3000 ore di supervisione clinica guidata e certificata, cui accedi solo DOPO circa 6 anni di formazione accademica nell’area psicologica, ed un esame di Stato gestito a livello governativo (non certo privatistico…).
Non credermi sulla parola, vai a controllare direttamente i criteri per la licenza sui siti ufficiali dei Board: è riportato tutto pubblicamente, con dovizia di particolari.
Quindi, quello per counsellor è un percorso molto simile al nostro per diventare psicologo, come è ovvio visto che poi la funzione svolta è estremamente simile; ed è proprio nella “iperlibertaria” California, terra del counselling umanistico, che sanno bene che la salute emotiva e il benessere biopsicosociale sono ambiti delicatissimi, per i quali servono alla base seri e prolungati studi accademici psicologici, che devono essere verificati tramite esami di Stato abilitanti, appunto a piena garanzia dell’utenza.
In Italia, invece, formalmente mi potrei autodefinire “counsellor” avendo la terza media e dopo un corso privato di 2 giorni a casa di un amico, senza alcun controllo pubblico. Sbaglio?
Non cogli alcuna differenza tra i due sistemi?
Io credo che siano piuttosto evidenti.
Cari colleghi, la colpa di quanto sta accadendo è solo nostra. Per tanto tempo l’Ordine ha arricciato il naso rispetto ad alcine attività (approccio olistico, psicologia energetica etcc.) che invece il libero mercato richiede comunque. Spesso ci siamo dimenticati che lo psicologo può fare ricerca e sperimentazione. Invece abbiamo lasciato il campo libero a sedicenti professionisti, nascondendoci dietro un falso rigore che spegne ogni attività non ritenuta “scientifica)? Certo che se i fisici avessero ragionato allo stesso modo di certi colleghi staremo ancora a grattare le pietre.Il rigidismo isterico contro la sperimentazione è altrettanto pericoloso dell’eccessiva apertura a pratiche esoteriche. Bisogna, tuttavia, dare maggiore fiducia ai colleghi che vogliono sperimentare. Certo la psicologia energetica o l’EFT è meglio se vengono praticate da psicologi competenti in tali ambiti (abilitati e iscritti all’Ordine) che non dal chiunque. Tanto l’utenza richiede lo stesso tali pratiche. Meglio se praticate seriamente da VERI PROFESSIONISTI.
Evidentemente non la coglie!chissà perché??? Oppure non è mai stato negli USA, dove ti fanno piangere se solo ti provi a taroccare la fibbia di una borsa! Figuriamoci per quello che riguarda la salute. Ma andiamo…lo sappiamo tutti che Gesù non è morto di raffreddore!!!!!
Noto che, purtroppo, si continua a fare confusione. Il counselor non è uno psicologo, come lo psicologo non è un counselor, e come lo psicologo non è uno psichiatra. Ancora non abbiamo capito chi è il counselor. La figura del counselor è fondamentale dal momento in cui ORIENTA, e l’orientamento ci aiuta a prevenire disagi futuri. Si limita a fare questo, ma è fondamentale che lo faccia. Ed è sempre stato così negli altri paesi, paesi in cui gli psicologi e i counselors non si fanno la guerra. Anzi, COLLABORANO. Entrambi sono a conoscenza delle proprie competenze e dei propri limiti. Anche uno psicologo può esercitare abusivamente se comincia a prescrivere farmaci(questo spetta agli psichiatri). Quindi, sta alla coscienza propria non cadere nell’esercizio abusivo della professione, e questo prescinde dalla professione del counselors. Tutti i professionisti possono abusare. In questo caso, ci penserà la legge a punirli. Il counselor che abuserà verrà punito così come verrà punito l’avvocato e il dentista. Quindi, smettiamola di ”arrabbiarci” solo per questioni legate alla propria vanità, e cominciamo a collaborare per l’interesse della collettività.
Ciao Luca, non mi hai poi dato alcun feedback sull’articolo che ti ho segnalato.
Tornando agli USA: non tutti i criteri per ottenere la license (counseling licensure process) sono uguali (variano da Stato a Stato) e, soprattutto, nel counseling (anche a parità di Stato) si diversificano sulla base dell’ambito lavorativo.
Il mental health counselor (che sarebbe il nostrano “counseling psicologico”, quello che noi come associazione – ad esempio – riconosciamo solo agli psicologi iscritti all’albo) ha un numero di semestri universitari di studio maggiori rispetto ad uno school counselor piuttosto che ad un career counselor.
Scopriresti poi che in USA accadono delle cose che per noi italiani sarebbero pura fantascienza. Ad esempio che un percorso universitario (anche in psicologia!) per essere valido ai fini dell’ottenimento della license in counseling, deve essere accreditato dal CACREP (Council for Accreditation of Counseling and Related Educational Programs).
Tradotto: sarebbe come a dire che in Italia la laurea in psicologia sarebbe valida ai fini dell’esercizio del counseling solo se il suo programma di studi fosse accreditato anche da un’associazione di counseling (con buona pace del CUN…).
Stiamo organizzando due incontri gratuiti a Firenze e Verona con un counselor statunitense ed un counselor inglese (quest’ultimo anche psicoterapeuta), nella speranza che ci aiutino a capirne di più.
Naturalmente sei il benvenuto.
Caro Tommaso,
ormai non ricordavo neanche che vi era un thread aperto mesi fa su questo 🙂
Eviterei però di fare confusione tra i livelli: la “licensure” (abilitazione a lavorare) è una cosa, l’accreditation (“accreditarsi volontariamente a qualcosa”) un’altra.
L’accreditation infatti NON basta assolutamente per poter essere automaticamente “abilitati” (=licensure) a fare il counsellor !
Negli USA, infatti, è necessario ottenere la “license” da un board, ovvero abilitarsi sotto il controllo dello Stato (esattamente come fanno gli psicologi italiani, con l’Esame di Stato), per poter operare sui temi psicologici, emotivi e relazionali dei propri clienti/pazienti.
Il CACREP (e altri organi simili) fanno accreditation volontaria, non danno alcuna “licenza” o “abilitazione” a nessuno.
Ed essere “accreditati volontariamente” dal CACREP non è assolutamente obbligatorio per avere a licenza ed operare poi come counsellor (di alcun tipo) nella legislazione federale o nazionale USA: CACREP è semplicemente un accreditation stakeholder.
Quindi l’analogia per cui “in America basta essere accreditati per lavorare” è in questo caso errata: anche negli USA l’accreditamento è condizione non necessaria e non sufficiente per abilitarsi, ed è richiesta anche lì una licenza pubblica che ti rilascia lo Stato a seguito di un esame pubblico (non un privato, lo Stato).
CACREP (e simili) opera, tra l’altro, in un contesto come quello “iperliberalizzato statunitense”, in cui il livello medio della preparazione – secondo le loro stesse parole – è a volte ambiguo: nel loro sito spiegano appunto tranquillamente che il mercato formativo cui si riferiscono è riempito di “diplomifici”, e che farsi accreditare con loro servirebbe anche in larga misura a dimostrare che non hai fatto un diplomificio…. (http://www.cacrep.org/template/page.cfm?id=12)
Poco rassicurante, come rappresentazione di scenario… 🙂
Un quadro quindi diverso da quello italiano, dove vi sono fortunatamente verifiche pubbliche sia del percorso formativo (Università statale o riconosciuta dallo Stato), che dell’abilitazione professionale (Esame di Stato), a massima tutela dell’utenza.
Ciao,
Luca
Ciao,
Luca
Ciao Luca, conosco benissimo la differenza, ma io ho detto un’altra cosa…
Sintetizzo la parte del mio ragionamento cui ti riferisci: l’accreditamento del CACREP è necessario NON al singolo, ma all’università che vuole erogare degree che poi vengano riconosciuti validi ai fini dell’ottenimento della license dal board dello Stato di riferimento.
In parole povere: i programmi universitari devono essere in linea con il CACREP, altrimenti quel degree non ti servirà mai per acquisire la license in counseling.
Il singolo poi, una volta ottenuta la license, è libero di accreditarsi presso strutture quali l’ACA o l’NBCC, giusto per citarne un paio.
Quanto al resto, la mia posizione è ormai chiara: le garanzie che dà lo Stato italiano (università, esame di Stato, e per finire la ciliegina sulla torta dell’Ordine) – quelle che tu chiami “verifiche pubbliche” – personalmente le ritengo l’esatto contrario del concetto di tutela.
Ma questo è un altro discorso 🙂
Tommaso
Caro Tommaso,
da quel che vedo, non mi sembra esattamente così…
L’eventuale accredito CACREP può essere presentato in una serie di board statali come accreditamento del programma di studi seguito, ma è comunque un prerequisito che non è nè necessario nè sufficiente per l’accesso alla licensure.
“Although graduation from a CACREP program does not guarantee you will be eligible for licensure”, sul loro sito ufficiale, significa appunto che non solo non corrisponde alla licensure, ma che di per sé non soddisfa nemmeno automaticamente i prerequisiti per chiederla.
E nemmeno in tutti gli stati è ritenuto valido anche solo come accreditamento, come indicato poi nel resto del testo.
Insomma, è un accredito volontario.
Il tutto, in un sistema normativo come quello USA che, lo sottolineo, chiede esattamente come in Italia di superare un “esame di stato” dopo aver conseguito una “laurea” per avere la “licensure”, e in cui il semplice accredito non corrisponde affatto all’abilitazione ad esercitare le relative attività di consulenza.
Se queste precise tutele pubbliche le considerano necessarie perfino nella patria del couselling… insomma, ne esce un quadro molto diverso da quello che (se non sbaglio) viene ipotizzato a volte come proposta di merito da certe realtà del counselling italiano 🙂
Ciao,
Luca
Ciao Luca, sarebbe davvero interessante potersi confrontare, anche a livello istituzionale, su questi temi. Una cosa che a mio avviso manca è appunto la totale assenza di dialogo istituzionale.
Come tu giustamente dici il fatto che un percorso di laurea USA sia accreditato dal CACREP non è un requisito sufficiente per ottenere la license. Questo è corretto e vale per tutti gli Stati.
Ma se scorri i requisiti dei board dei vari Stati ti accorgerai che, in quasi tutti, è un requisito indispensabile (non sufficiente, ma necessario).
Sempre per rimanere in tema è interessante notare come alcuni Stati rilascino due diversi tipi di license: “Licensed Professional Counselor” (LPC) e “Licensed Clinical Professional Counselor” (LCPC).
Questo rappresenta esattamente il nostro pensiero: esiste tutta un’area di consulenza alla persona, alla famiglia, alla coppia, alla comunità e alle organizzazioni che non dovrebbe sovrapporsi a quella che, in Italia, è genericamente chiamata “clinica”.
Noi riteniamo che l’Ordine degli psicologi abbia fallito, dal 1989 ad oggi, nel dare risposte a questa vasta area “non clinica” e che a buon diritto professioni diverse dalla psicologia possano e debbano occuparsi di quest’area.
Alla prossima
Tommaso