Non mi auguro buona fortuna: sono io la mia buona fortuna. Questo verso di Walt Whitman mi ha fatto luce su un problema.
Ci stavo girando attorno da qualche giorno, sollecitato dal dibattito in corso in Piemonte sulle normative regionali che potrebbero causare il licenziamento di un numero imprecisato di psicologi dalle strutture di assistenza, perché assunti come educatori. Il problema assume poi altre connotazioni: sembra che la figura dello psicologo non sia prevista in certe tipologie di servizi, e questo è un discorso ancora diverso.
Ma al di là del problema piemontese di regolamentare il settore del privato sociale socio-sanitario, che in altre regioni è già regolato in modo simile, resta un altro nodo più vicino a noi psicologi.
C’è un’aria pesante, nella nostra professione. Ci sono colleghi che si danno per spacciati solo perché arriva una nuova legge regionale. Come se fosse una novità. Come se i passaggi storico-normativi europei, nazionali e regionali incombessero sulla professione per stritolarla. Come se il mondo ce l’avesse con gli psicologi.
Lavoro nel privato sociale veneto dal 2000, ormai 13 anni. Prima come operatore, poi come psicologo, ora con ruolo dirigenziale. In questi 13 anni gli eventi storici e politici che hanno condizionato il mio lavoro si sprecano, e alla storia che incombe sul mio destino professionale ci ho fatto il callo: tutti i giorni, incombe.
La Storia è una specie di corvaccia nera che mi sta appollaiata sulla spalla da quando inizio a quando finisco il lavoro, perché ogni giorno c’è una novità che mette potenzialmente in pericolo la mia stabilità lavorativa: oggi sono i tagli al sociale, ma prima c’era la crisi, e prima ancora le elezioni regionali, e poi gli amministratori regionali alla sanità che si intendono più di cacciaviti o semafori che di persone, e poi la concorrenza delle altre strutture, e il costo del personale, e le continue modifiche normative.
Tutto rende il lavoro una corsa ad ostacoli. Dovremmo lamentarci con qualcuno? forse. Ma poi avremmo perso tempo senza risolvere nulla. Cito il mio collega Francesco Ferrarese dicendo che “l’atteggiamento del (pur legittimo, e giustificatissimo) lamentarsi e quello dell’aggressione al mondo del lavoro non possano coesistere: il tempo che dedichiamo al primo è rubato al secondo.”
Whitman ci augura di non dover aspettare la fortuna. Che è attesa terribile, a pensarci: c’è qualcosa di soffocante in quel dolore che tutti noi abbiamo attraversato, prima o poi, quando ci siamo sentiti dire: ‘non possiamo rinnovarle il contratto’, quando abbiamo provato la sensazione di restare senza reddito, senza qualcosa da fare, senza un ruolo. Quando abbiamo dovuto aspettare qualcosa.
Ma non c’è nulla da fare: nessuno potrà risparmiarci questi battesimi di fuoco. E allora si possono prendere due strade: la prima è rivendicare il diritto al lavoro, mettendo di fatto in mani altrui il nostro destino, affidando al nostro rabbioso messaggio di protesta la speranza di essere visti. La seconda è governare la situazione, affidando alle proprie forze ogni responsabilità, anticipando la vita piuttosto che rimanere in sit-in ad aspettare che ci investa.
Siamo noi i protagonisti storici del privato sociale in molte regioni. Siamo noi psicologi ad essere chiamati a ruoli di responsabilità, e invece finiamo per aspirare ad altro. Non stiamo forse dimenticando che un professionista deve porsi in ottica attiva? che può e deve aspirare a dirigere, piuttosto che ad essere diretto? che deve assumere la posizione e le responsabilità del ‘padre’? Se questo passaggio generativo non viene compiuto, è difficile che dentro di noi possa crescere l’identità del professionista.
E ritorna poi la domanda che mi feci un anno fa con Luigi D’Elia in questo articolo: i giovani psicologi sono clientelari? anche questo nido, apparentemente sicuro ma in realtà intossicante, va abbandonato.
Nessuno nega il problema strutturale della disoccupazione e dei troppi laureati in psicologia, che incide sia sul lavoro che sulla qualità dei professionisti. Ma di questo siamo tutti egualmente responsabili: la moltiplicazione delle sedi universitarie risponde anche ad una domanda, che tutti noi abbiamo contribuito a comporre e sostenere scegliendo la psicologia.
Sappiamo che non tutti lavoreranno. Eppure ci rifiutiamo di pensare che quel qualcuno potremmo essere noi. Reagire con la lotta sindacale in stile anni ’70 non farà moltiplicare il lavoro per gli psicologi. Piuttosto, sottrarrà tempo all’assunzione del ruolo di professionisti e mostrerà alla società una professione molto più debole di quel che è davvero.
alla domanda del titolo risponderei di si. per come sono organizzati oggi e per come esercitano la psicologia, per come è strutturata, direi che la fase storica la condanna alla morte certa, tra spending review e inefficienze macroscopiche, oltre che a modelli desueti (chi fa più psicoterapia per 5 anni e più?) bisogna ripensare tutto, ed è questa una bella sfida professionale creativa e entusiasmante. Chi la raccoglie e ci darà dentro qualcosa combinerà, gli altri ai margini, come vale per diverse altre professioni.
sono assolutamente in accordo con te. Dopo quasi 30 anni di professione alla luce del sole (tasse ed enpap pagati regolarmente), ho visito decrescere lentamente le occasioni di lavoro dal 2008 a oggi. Più nulla. L’esperienza non serve. Siamo vecchi, fuori badget.
E con dolore alla fine dello scorso anno ho chiuso la partita iva.
Non c’è più lavoro.
E’ stato un lavoro che mi ha dato tante, tantissime soddisfazioni.
Ma ora non ci sono più le condizione per lavorare.
E passo il tempo a ripensare in nuovi termini per mettere a frutto tutto quanto le persone che ho accompagnato in questi anni, i libri che ho scritto, i convegni, la conoscenza di molteplici realtà mi hanno dato. Ho ancora speranza.
Maria Teresa Cerrato
Psicologa psicoterapeuta formatrice.
Chi parla è uno che nel privato sociale veneto c’è stato per 25 anni ricoprendo un po’ tutti i ruoli, financo quello di presidente di una piccola realtà. L’ho fatto prima da educatore e poi da dirigente. Il fatto che nel frattempo sia diventato psicologo non ha fatto una grande differenza: l’esperienza maturata sul campo mi aveva già dato la patente da dirigente, anche prima di ottenere il titolo di laurea in psicologia. Ora, il fatto di essere psicologi o meno non dà automaticamente la patente per ottenere ruoli dirigenziali nel privato sociale. infatti, gran parte dei dirigenti non sono psicologi. Inoltre, è mia esperienza che una volta divenuti dirigenti, la psicologia professionale, in qualche modo, possiamo dimenticarcela, tanto saremo presi da bilanci, sociali ed economici, questioni che riguardano il personale, questioni che riguardano il governo e le alleanze. E’ più un lavoro da economisti che da psicologi, in effetti. certo, per qualcuno saturo di psicologia e psicoterapia può essere un buono sbocco. Non certo per il giovane laureato in psicologia e neanche per quello che nel privato sociale ci sta da qualche anno. E’ vero che la professione va riscritta, anche nelle sue forme e nei setting terapeutici, nelle forme di lavoro in staff (non vi sembra che gli psicologi siano solitamente gelosi e protettivi del loro know-how e lo trattengano come un tesoretto per paura del furto?). La creatività la vedrei in questo ambito, più che nel “far carriera” e diventare consigliere di amministrazione o direttore della cooperativa di turno. Condivido con Federico la prospettiva pro-attiva e non sindacal-lamentosa di cui ha bisogno la nostra professione. In tal senso, la formazione continua e la promozione professionale sono aspetti strategici. Personalmente, dopo 25 anni di onorato servizio nel privato sociale veneto, ho recentemente rinunciato al posto sicuro e al “posto di lavoro a tempo indeterminato”, e sono passato alla libera professione, in tempo di crisi. Mi son detto: “Ora o mai più” e ho pensato che è proprio in tempo di crisi che la sfida voglio giocarla. Certo, la rappresentazione sociale dello psicologo non mi aiuta: anni di politica professionae strutturata e governata da chi crede che sia vincente per gli psicologi scimmiottare il medico, dando di sè un’immagine prettamente “sanitaria” (come se questo rassicurasse il cliente sull’eventuale professionalità dello psicologo)ha scavato un solco profondo tra il professionista psicologo e il pubblico in generale. Mi pare che Altrapsicologia abbia in mente ben altro, in prospettiva. O almeno lo spero. Un caro saluto
Dopo anni di studi, formazione, specializzazioni, mi ritrovo come tanti colleghi a lottare ogni giorno per cercare di fare del mio lavoro una professione, cercando di darle un valore, il giusto valore, sostenerla anche contro ogni crisi, svalutazione, sociale, politica… Insomma cercando ad ogni costo e sacrificio di essere pro-attiva piuttosto che semplice spettatrice che subisce, ma non e’ semplice… No, non lo e’ … Tt quello che accade e’ scoraggiante. Chiedo e desidero il vostro parere e sostegno, convinta che solo con il confronto e la collaborazione reciproca qualcosa si puo’ smuovere e cambiare!!
gli psicologi non sanno lavorare insieme, si guardano in cagnesco, è davvero una tragedia, quando si potrebbe costruire qualcosa di buono si buttano tutti come il cane sull’osso. Concorrenza spietata e ognuno per sè.
Questo è il motivo epr cui psicologia viene considerata laurea debole.
Debole come la capacità di fare categoria dello psicologo.
In futuro non esisteranno più gli pwsicologi: da un lato medici-psicologi e dall’altra counselor a volontà..
chi è causa del suo mal, pianga se stesso