Sono molti gli articoli su web e che girano nei social che raccontano impietosamente la “morte” della professione. Pessimismo, realismo? Forse val la pena fare qualche riflessione in merito.
“Caro collega, diciamocelo chiaramente, lascia perdere, specie se sei giovane, specie se da poco ti stai affacciando alla professione. La professione, segnatelo da qualche parte, é allo sbando. Fare lo psicologo non ha senso. Sappilo, tutti gli sforzi che fai, sono destinati ad essere vani. Anche i numeri lo dicono….”
Ti suona familiare questa descrizione, questa realtà? L’hai letta di recente su qualche articolo, o ne hai parlato con i tuoi colleghi ? É proprio pensando a questa realtà, apparentemente fatta solo di segnali negativi, di tinte fosche, di scoraggiamento e rinuncia, che facciamo queste riflessioni.
Volendo sintetizzare il “mood” che sempre più spesso corre nel Web (e non solo), rispetto allo status ed alle dinamiche della nostra professione, di certo si farebbe fatica a non utilizzare parole come “scoraggiamento” e “rinuncia”.
Un mood a tinte fosche a dir poco, in cui le idealizzazioni passate che forse ci avevano portato a studiare Psicologia sembrano precipitare, depressivamente, in una sorta di “cupio dissolvi”, impotente e disperante. Una sorta di “psico-Urlo di Munch”, per capirci.
Un sentimento generale, diffuso, ma che certo caratterizza maggiormente le giovani generazioni di colleghi: coloro i quali solo da poco si stanno affacciando alla professione, in un quadro economico e professionale già segnato da difficoltà e precariato. Sono infatti molti gli articoli, i commenti e le riflessioni, scritti da colleghi stessi, che in questo periodo si rincorrono in Rete e nei Social Network, in cui i giovani psicologi raccontano in modo impietoso e senza tante mediazioni la nostra difficile realtà.
Alcuni di questi colleghi fanno anche preciso riferimento a dati, numeri, fonti ufficiali; dati e rappresentazioni innegabilmente preoccupanti, per chiunque abbia un minimo di senso di realtà. Dati che del resto, come AltraPsicologia, sono anni che segnaliamo a Ordini e Istituzioni, purtroppo con scarso riscontro da parte di molti tra questi.
“Ma allora, se questa é la realtà professionale, che senso ha continuare?”
Ecco, ai minimi termini, ci immaginiamo questa fatidica domanda come il finale più coerente con tale realtà. Ma, verrebbe da dire, c’é davvero solo questa prospettiva?
Ci rendiamo conto del pericolo che corriamo nel voler “allargare” tale visione: in questo modo si corre il grosso rischio di passare per “negazionisti”, o per chi si vuole illudere e non vedere la realtà per quella che è.
Ma come AltraPsicologia, che è stata pioniera nel segnalare il disagio crescente della categoria, crediamo anche che aggiungere agli innegabili dati di realtà una diversa prospettiva di senso sia un “rischio” (o un’opportunità…?) che vale davvero la pena di correre.
Il quadro economico-professionale è grave; ma non c’é solo questo, e bisogna evidenziarlo con forza. Incontriamo infatti ogni giorno giovani colleghi nelle diverse Regioni che, pur nelle difficoltà e nella grande complessità di contesto (che travalica in parte le responsabilità individuali), riescono comunque, pian piano, passo dopo passo, a costruire un proprio percorso di sviluppo professionale; che riescono, nel tempo, ad attivare energie verso una visione più concretamente propositiva del proprio percorso lavorativo.
Vediamo e incontriamo colleghi che decidono di cambiare mentalità, di uscire dalle vecchie logiche, di alzare la testa, di mettersi insieme, di riunire le forze e le competenze. Di assumere un atteggiamento più pragmatico, determinato, proattivo, innovativo, imprenditoriale.
Di sviluppare pazientemente linguaggi e competenze, spesso anche extrapsicologiche (diritto, economia, project management…), essenziali per avviare e sviluppare attività professionali innovative.
Colleghi quindi, che sono in grado di raccontare tutte le fatiche che comporta il costruirsi, se non l’inventarsi, un percorso di crescita professionale; con tutte le sue ambivalenze, ma anche nei suoi ricchi risvolti positivi.
Colleghi che, mentre molti (pur comprensibilmente) si lamentano rivendicativamente per le loro vecchie illusioni frantumate dalla realtà del mondo professionale, fanno proprio quel famoso detto:
“Blame no one. Expect Nothing. Do Something”.
É una realtà parziale? Certamente. Ma crediamo sia necessario assumersi la responsabilità di raccontare anche questo “lato”, poco di moda, della realtà professionale odierna degli psicologi italiani. E fare di tutto per aiutare a svilupparlo, con soluzioni concrete e confronti aperti con i colleghi.
Qualche giorno fa, parlando con un collega, uno di noi è stato molto colpito da questa affermazione:
“A volte, l’impressione é che vi sia una sorta di compiaciuta necrofilia nello psicologo nel raccontare di quanto tutto vada male, di quanto tutto vada sempre peggio per la psicologia e per lo psicologo…“.
Ecco. Con questa lettera, vorremmo davvero mettere nel campo delle possibilità anche altri orizzonti.
Un orizzonte in cui provare concretamente a superare modelli professionali obsoleti, e implementarne di nuovi. In cui, con determinazione, smetterla di “sperare che qualcuno mi conceda un lavoro”, uscire dalle logiche clientelari, e sviluppare le competenze e le logiche che magari ci mancano per iniziare a costruircelo davvero. Un Orizzonte a nostro parere difficile da realizzare; ma sempre più urgentemente possibile e necessario.
Questa è una prospettiva che sentiamo il bisogno di esplorare, condividere e proporre assieme agli psicologi italiani. E tu cosa ne pensi, collega?
Luca Pezzullo e Alessandro Lombardo
Come quasi sempre sono molto d’accordo con te, Alessandro. Il problema è che per crescere occorre, oltre ad evitare atteggiamenti autolesionisti e “necrofili” (bellissimo), pur tenendo un piede nel passato per non cadere mentre si alza l’altro, marciare verso il futuro evitando di fare la fine della moglie di Lot per difendere un antiquariato epistemologico. Falsificazionisticamente, accettiamo che quello della “psicologia” e della “psiche” stessa, con l’avvento di modelli come la black box sia superata e richieda una revisione teoretica che sia fondamento alle nuove pratiche superando l’inclinazione parrocchiale che ci porta troppo spesso a sovvenzionare il cannibalismo professionale.
Caro Ennio, non capisco bene cosa tu intenda per “nuove pratiche”, di certo, quello che capisco, è che questo clima che si va creando intorno alla professione, rischia di ancorare la professione stessa a modelli (di professione) vetusti ma ancora, purtroppo, molto in voga nelle nostre teste.
Un saluto
Beh, Alessandro, intanto sono convinto che la psicologia si sia ricollegata alla sua matrice antica collegandola con modelli epistemologici attualissimi. Per fare un esempio qualsiasi, Mindfullness, ACT, stati di coscienza… Intanto credo che bisognerebbe rinnovare la disciplina, come si fa in molte delle professioni più o meno recenti e credo che al posto dell’oggetto “vetusto” di *psiche* varrebbe la pena di parlare di *mente* nel senso batesoniano che farebbe approdare il riferimento scientifico almeno alla metà del secolo scorso. E quindi le facoltà di Psicologia dovrebbero diventare facoltà di *Scienze della Mente*. Poi, è assolutamente vero che la fame agita i peggiori mostri, ma andando avanti così, aggrappandoci alla tutela istituzionale, nei confronti del cliente non possiamo che fare autogol, mentre offriamo il destro alla moltiplicazione delle scuole che sono la vera vergogna della disciplina, in quanto creano confusione nella pubblica opinione e barbarie negli adepti.Come te so che non sono cose che avvengano dal giorno alla notte, ma dobbiamo fare pulizia in casa prima di suicidarsi o fare giustizialismi esterni verso miraggi di nemici.Per semplificare, intanto ci vorrebbero delle avanguardie nelle Università e un gruppo scientificamente (non “parrocchialmente”) preparato fra associazioni e ordini, perché ci vuole una lucidità maggiore di quella vista anche qua dentro. Occorre tolleranza, pazienza, disponibilità aggregativa invece che separativa per andare verso, non tanto dei criteri di appartenenza verticistici e manichei, quanto un metodo descrittivo di orientamento che sia comprensibile sia al pubblico che agli epistemologi (non dico scienziati, perché ormai ci sono troppe letture del termine scienza che sono diabolicamente diametrali ad uno spirito veramente metodologicamente robusto).Come ultimo esempio, ricordo il valore delle pochissime riviste divulgative di Psicologia degli anni ’70 e anche ’80 e lo confronto con quanto trovo ora in edicola e mi domando quanti pensano che sia da difendere questa chiave di lettura condivisa da buona parte del mondo.Da bravi psicologi dovremmo sapere che non si può cambiare la testa degli altri, ma si può sempre sforzarsi di più per migliorare e distinguere la nostra, no?
La professione così come molti se la immaginano è defunta eccome.
Se il sogno era quello di un posto pubblico, se il sogno è quello di stare seduti dentro lo studio ad attendere che i pazienti arrivino come vediamo nei telefilm, la strage è già bella che fatta. Se immaginiamo che fare millenni di volontariato in questa o quell’Asl significherà che prima o poi ci inseriranno, abbiamo voglia di invecchiare.
Io penso che la realtà, nuda e cruda com’è, vada raccontata perché molti dei futuri colleghi la ignorano. Ignorano i “tempi del percorso” e gli step necessari…ahimè molti arrivano all’esame di stato pure senza sapere lo psicologo che fa….
Sorvoliamo sulle responsabilità e sulle loro possibili spartizioni, ma è proprio a partire da un’analisi del contesto in tutti i suoi aspetti, anche quelli più apparentemente deprimenti, che uno può pesare effettivamente proprie prospettive, motivazioni e risorse (pure economiche). Fare lo psicologo non ce l’ha prescritto il medico.
E’ poi vero che la nostra comunità, come praticamente tutto il contesto italiano, soffre di una sorta di masochistico piacere ad iperanalizzare le cose e a non fare mai il passo successivo. Ossia: ok, stando così le cose, quali sono le alternative? Prendere una posizione, qualunque essa sia, ma prenderla. Sarà sicuramente più efficace che stagnare nell’analisi depressiva di una condizione che attualmente coinvolge gli psicologi e non solo.
La mia posizione attuale è fare le cose insieme. Se ho una buona idea non la tengo mai per me, vado da uno o più colleghi e gli chiedo cosa ne pensano, se ci vogliamo lavorare insieme. Pensare che condividere sia favorire la concorrenza trovo sia una visione miope. Poi magari fra 10 anni mi lagnerò pure io, ma non è questo il giorno!
Ada, AP racconta la realtà così com’è da quando è spuntata nel panorama politico professionale. Ma va aggiunto anche un pensiero che vada oltre.
Io vorrei in parte rivendicare il mio diritto a lamentarmi.
Non che voi abbiate criticato chi si lamenta, lo dico solo provocatoriamente. Concordo in pieno con quanto dite, ma purtroppo vivo sulla mia pelle che a volte non basta neanche rimboccarsi le maniche.
Sono giovane, ho appena 30 anni, ma vivo molto attivamente la mia vita professionale: partecipo alla vita politica della categoria, organizzo e partecipo a iniziative di promozione, mi sto specializzando in psicoterapia, ho un mio studio privato e lavoro per un’associazione in cui faccio consulenze psicologiche per adolescenti e famiglie, oltre che cercare di mettere in piedi iniziative e collaborazioni sempre nuove (con l’università, con altre associazioni di categoria, con enti del territorio, con le scuole); ho provato con un progetto nelle farmacie; faccio formazione a studenti universitari e in azienda; ho fatto anche altri tentativi negli ormai quasi 4 anni di costante impegno e sforzi quotidiani.
Cosa ho raccolto?
A livello personale, molto: ho una rete di colleghi enorme, con cui in molti casi i rapporti vanno oltre quello professionale, ma sono di dichiarata stima se non di amicizia; faccio anche molte attività che mi piacciono e mi gratificano. Questo è bello. Però, sul piano economico è un disastro. Le attività che faccio per promuovermi sono per lo più gratuite… e funzionano solo per questo, quando funzionano. Appena si parla di soldi, qualunque interlocutore si dilegua. La crisi è reale, ma vedo anche come sia diventata una scusa facile da utilizzare quando non si vuole riconoscere la professionalità di qualcuno con un adeguato corrispettivo economico.
Non mollo, certo; continuerò a provare ad avviarmi, ma i risultati che vedo dopo 4 anni di tentativi e frustrazioni enormi, sono davvero pochi. Non mollo, ma se posso permettermi di continuare a cercare di fare lo psicologo-prossimo-terapeuta, invece che tuffarmi sulla ricerca disperata di qualsiasi altro lavoro, lo devo esclusivamente alla mia famiglia che mi aiuta (e lo dico senza vergogna). Perchè non solo non si riesce ad essere retribuiti come i professionisti che siamo, ma anche le nostre spese per essere adeguatamente formati alla professione sono altissime, tra analisi personale e specializzazioni varie.
Io ci provo ancora, ma continuare a crederci è una lotta quotidiana e mi appello ancora al mio diritto (almeno quello non me lo si tocchi) di lamentarmi quanto voglio, finchè mi do da fare.
Caro collega, sottoscrivo ogni parola. E’ una lunga semina e anch’io, giovane psicologo specializzando, pur dandomi molto da fare e ricevendo in cambio molte soddisfazioni, ho pochi riscontri sul piano economico. Ed è vero: senza la mia famiglia alle spalle non potrei buttarmi in quello che sto facendo, che poi è il lavoro per cui ho studiato.
Che ci si debba dar da fare, inventarsi, proporsi è la conditio sine qua non per poter sopravvivere. Ma purtroppo i tempi entro i quali un progetto si concretizza, prende piede e inizia a dare i suoi frutti (anche in termini economici) sono lunghi.
Se condivido l’idea che il lamentarsi melanconico sia utile solo a mantenere in vita l’illusione che le cose dovrebbero andare come si è sperato, bloccando in un circuito di autocommiserazione entro cui non si fa nulla perché le cose cambino, penso che a volte il lamentarsi sia un momento di sfogo, per dare voce alla frustrazione che nasce quando seminando fanno male tutti i muscoli, il sole brucia sulla pelle, si è arsi dalla sete e ancora non si vede spuntare un germoglio…
Cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno, mi sembra indubbio che ci sono colleghi che lavorano, e molto, privatamente. Non hanno santi in paradiso e, per quanto mi è capitato di conoscere, neanche doti umane o professionali inarrivabili. Per cui mi chiedo: come hanno fatto? Come fanno tutti i giorni a ritagliarsi un posto nel mondo? Che cosa fanno di così speciale o difficile da ottenere questi risultati? Cosa posso fare io, qui e oggi, di talmente utile a qualcuno da farmi pagare? Io credo che l’atteggiamento del (pur legittimo, e giustificatissimo) lamentarsi e quello dell'”aggressione” al mondo del lavoro non possano coesistere: il tempo che dedichiamo al primo è rubato al secondo.
Il diritto a lamentarsi vi è sempre, Riccardo 🙂
Così come il fisiologico “diritto” al “sentirsi frustrati”, quando pur numerosi progetti non producono esiti soddisfacenti.
Credo che l’articolo non focalizzasse questo aspetto, che è fisiologico, quanto la necessità – sempre più urgente – per i nostri colleghi (in particolare i più giovani… ma non solo) di cambiare “forma mentis” rispetto a quelle che sono le modalità con cui si muovono nel mercato professionale, al tipo di aspettative che hanno, alle logiche “imprenditoriali” (nel senso laico del termine) che usano per riconoscere le domande reali del mercato, ed adattarvi intelligentemente le loro “risposte” professionali. Con etica, competenza, proattività.
In altri termini: una logica proattiva in quanto tale non è magica; e anche gli “imprenditori” più dinamici (e questo avviene in ogni settore economico, psicologico quanto non) si trovano spesso in difficoltà, vedono fallire numerosi progetti, e in periodi di crisi faticano il doppio….
Questo però non implica che l’approccio proattivo e innovativo non sia proprio la chiave in generale più efficiente, la leva più potenzialmente produttiva in termini di “ritorno di investimento professionale”; soprattutto (come ogni investimento…) nel medio e nel lungo termine.
In pratica: tra te che ti stai sbattendo, stai costruendo rete, ti stai muovendo molto attivamente da un lato; e, dall’altro, molti altri colleghi che purtroppo continuano a mandare centinaia di CV “alla cieca”, che non si muovono di un millimetro fuori dal loro specifico recinto endoprofessionale, che continuano a sovraformarsi per anni solo in settori “di nicchia” accumulando corsi su corsi in settori a “scarso valore aggiunto” (in cui spesso sono già iperformati), che vivono con passività la speranza che, facendo abbastanza volontariato, qualcuno un giorno dia loro “il lavoro della vita”… beh, la differenza di prospettive è notevole, e nel corso degli anni avrà il suo forte impatto.
La professione, per usare una metafora che mi piace molto, è come una maratona: dura 40 chilometri (40 anni di attività…), e non è certo la sgambata dei primi 4-5 chilometri (4-5 anni di inserimento lavorativo) che ci permette di capire con certezza come andranno le altre decine di chilometri/anni.
Ma sicuramente, se parto male nei primi chilometri, con un ritmo di gara sbagliato già all’origine e senza focalizzazione, riduco drasticamente le mie possibilità di arrivare fino alla fine. Mi spompo al decimo chilometro, e mi ritiro (come fanno molti colleghi).
Se invece parto con una buona strategia di gara, e tengo costantemente un ritmo intelligente… massimizzo la mia possibilità di arrivare fino in fondo, pian piano emergendo dalla massa di gareggianti man mano che andiamo avanti. Non è una certezza, ma è una forte probabilità. Che è il massimo che può avere qualunque maratoneta, o qualunque imprenditore.
In questo senso, quello che tu ci stai descrivendo è l’avvio di un ottimo ritmo di gara 🙂
… e soprattutto ricordiamoci sempre che TUTTI i maratoneti, compresi quelli bravi e che tengono un buon ritmo, sono moralmente autorizzati a imprecare terribilmente più volte, durante la lunga faticaccia della maratona… 😉
Ciao !
Luca
Carissimi, vedo che ogni tanto riciccia l’autoterapia della depressione categoriale che negli anni passati coma AltraPsicologia avevamo provato ad affrontare nei due libri di Aisha Proxima, lo psuedonimo dietro il quale un “commando” di AP aveva utilizzato per raccontare le identiche questioni che sono oggetto di questo articolo(ricordo a tal proposito con affetto il compianto Giuseppe Tessera, eccellente curatore di entrambe le edizioni).
Come ogni terapia difficile ha tempi lungi e richiede una certa laboriosità. Vedo che non sono cambiati i suggerimenti per cominciare ad uscirne: fate rete professionale e inteprofessionale, proponetevi con ciò che avete, provate a testare i vostri desiderata trasformandoli in progettualità realistiche, acquisite competenze abilitanti extracurriculari (marketing, internet, etc..), mirate meglio le attività promozionali e gestite meglio le vostre energie. e così via, i consigli si sprecano.
Personalmente, pur distaccandomi dalla prima linea politico professionale già 4 anni fa, ho proseguito nel mio piccolissimo a verificare l’attendibilità di questa impostazione ricavandone invariabilmente conferme (ogni tanto “adotto” pochi selezionatissimi giovani colleghi e do loro una mano a costruire la professione), e cioè che una programmazione sistematica della professione consente nell’arco di 3-4 anni a cavallo della fine della formazione post universitaria di realizzare delle basi sufficientemente solide per il futuro. Pedalare come matti per 4-5 anni (nella direzione giusta!) e raccogliere i frutti. La stagione della semina e della crescita dura minimo 2-3 anni e c’entra pochissimo con quanto s’impara nelle istituzioni formative.
I colleghi fanno fatica ad entrare in quest’ordine d’idee temporale e si disperdono e si deprimono strada facendo. A volte, occorre dirlo senza peli sulla lingua, non sono proprio capaci. Ma anche questa consepavolezza, seppure tardiva, deve prima o poi arrivare quando è il caso.
Evidentemente il lavoro che ha fatto AP di costruzione di una comunità professionale viva e fattiva è ancora agli albori…. qui i tempi di impatto invece di 2-3 diventano 20-30 😉
Hanno ammazzato la Psicologia? La Psicologia è viva!
Dentro la psicologia ci sono moltissime fenici che possono far “rinascere” la nostra professione, in alcuni casi addirittura possono renderla visibile laddove si sia usata per decenni una visione frammentaria e limitata di cosa sia e cosa significhi essere psicologo. Prendere nota di dati e statistiche è utile e importante se si trasforma in riflessione ( dopo una bella sfuriata e qualche imprecazione, chiariamoci, io per prima non sono affatto Zen nè aspiro ad esserlo) per poi costruire un nuovo essere psicologi, altrimenti la lametela è fine a se stessa e serve solo a tranquillarci e restare malamente s-comodi nelle nostre posizioni. La psicologia è possibilità. Condividere è possibilità, altrimenti troppo spesso nella nostra comunità si è stati soliti giocare a “Armiamoci e Partite!”
Grazie Luca e Alessandro per l’articolo.
cerco di lavorare come psicologo da quasi 30 anni, non ho mai avuto soddisfazioni lavorative inerenti a questa pseudo scienza.
Faccio altro nella vita, mi sono cancellato dall’albo (non ha senso visto che mi occupo di formazione) e tra un po dall’enpap. Questa professione è ormai morta, o forse non è mai nata?
La psicologia è come un fantasma che infesta una casa maledetta: tutti dicono che c’è ma poi, alla prova dei fatti, non si fa quasi mai sentire. Essere realisti non è un hobby per pochi ma un dovere per tutti. La situazione è tragica, punto. Chiaro, non per tutti e non arrendersi è meritevole, ma c’è anche chi dice basta. E si ferma.
il grosso problema della professione psicologica è che, essendo chiaramente un’arte, non riesce a dimostrare pubblicamente in maniera costante e chiara la propria utilità e il valore aggiunto che porta in termini di benessere e qualità della vita. Tutto qua. In questo è completamente diversa da qualsiasi altra professione esistente. E’ una professione delle potenzialità, ma quando queste non si realizzano la società di punisce, perché comunque risorse ne son state spese. Non c’è certezza nella psicologia, ma solo tentativo. Inoltre, la professione è stata uccisa dal numero aperto ai corsi di laurea che, visto quanto sopra, andrebbero chiusi: entra solo chi dimostra nel corso degli anni reali attitudini, gli altri si laureano in psicologia come fosse filosofia ad indirizzo psicologico e non praticano, son troppo inetti per approcciarsi all’arte della comprensione e della cura dell’umano. Non è che se io faccio le belle arti divento Giotto, serve talento. I corsi di studio in psicologia, per far sopravvivere la professione, devono cominciare a selezionare il vero talento per queste cose. Che si vede, eccome di vede, spesso già a 20 anni. Basta saper guardare. Saluti e buona psicologia (potenziale) a tutti.
Wow, che pugno allo stomaco.. come siamo arrivati, a partire dall’ottimo articolo propositivo e incoraggiante di Alessandro a cotanti commenti pessimistici e “depressivi”? Sono d’accordo con la collega Ada, che dice che la nostra professione non è morta, ed è invece morta la vecchia versione dello psicologo, solo che molti di noi non hanno partecipato al suo funerale e non se ne sono accorti. In questo periodo è difficile campare in qualsiasi settore, tanto più in quelli che offrono servizi che sono importantissimi ma che la maggior parte delle persone ritiene superflui, o almeno trascurabili rispetto ai bisogni primari. Non abbiamo solo la clinica, ci sono molti altri settori in cui sperimentarci, ma comunque neanche quella è morta, semplicemente dovremmo abituarci un po’ di più ad andare verso la gente e non aspettare che la gente venga a noi (la psicologia di comunità ha fatto suo questo motto da tempo!). E cosa altrettanto importante… aiutarsi e lavorare insieme tra colleghi non riduce il lavoro, come molti pensano, ma lo amplia. Ognuno di noi ha delle competenze e risorse specifiche, tutte importanti per promuovere la professione e ampliare le nostre reti di intervento. “L’unione fa la forza”, è un detto così semplice eppure così vero. Io credo nell’unione e credo anche che scambiarsi esperienze, sostenersi, lavorare in gruppo per formulare nuove idee, sia fondamentale. E’ importante mantenere la “modalità proattiva”, provare, sbagliare, cadere e rialzarsi. Senza gli errori come faremmo ad affinare il nostro modo di operare e migliorarci? No ottimismo, no pessimismo, solo realismo? Ma la realtà esiste o è sempre filtrata da noi, dal nostro modo di leggerla? Scusate la parentesi costruttivista, ma ho una deformazione.
Forse qualche verità c’è 🙁
Leggendo il post ho pensato inevitabilmente alle mie iniziali spettative, di quando mi sono iscritta a psicologia.
Inutile dire che le mie aspettative, forse anche molto elevate, sono state disilluse. Con il conseguente scoraggiamento seguito da fase di rinucia e successiva ripresa.
Ed è altresì vero che questo “mood” appartiene sempre di più alle nuove generazioni,che spesso non vivono nemmeno del cosidetto “precariato”… anzi già quello sarebbe un grande passo avanti 😉
Tuttavia concordo anche con quello che scrivi tu, bisogna cambiare mentalità ed uscire dalle vecchie logiche … perchè tanto se non vi usciamo noi dalle vecchie logiche di “lavoro-professione-mercato”, certamente nessuno ci farà entrare.
Certamente il rincorrere il posto fisso, quello tanto ambito da noi nuovi generazioni, è improponibile e sicuramente caratterizzato da toni non aderenti alla realtà, o per dirla in maniera più soft, dai toni fantasiosi.
Quindi, si! Usciamo da quello che un collega ha chiamato “compiaciuta necrofilia dello psicologo nel raccontare di quanto tutto vada male, sempre peggio, etc etc”.
Ma, questa è una domanda che pongo a voi da iscritta AP, come fare?
Perchè se è pur vero dire che la professione di psicologo sia defunta è comunque un’esagerazione, tuttavia dall’altro lato bisogna riconoscere che comunque la professione di psicologo tanto bene non se la passa…
Da parte mia, sicuramente vi è tutto il mio impegno, affinchè si possa far riacquisire valore e dignità alla nostra professione.
Mi piacerebbe fare tutto ciò nel mio territorio 🙂
….io ho 64 anni e quindi comunque vada il mio tempo l’ho già fatto…..ma, noto, che non ci sono analisi del “perchè” di questa decadenza della nostra professione. A mio giudizio tutto è iniziato con…il crollo del “Muro di Berlino”….e mi spiego. Prima, forse per l’esistenza di due ideologie contrapposte la gente sentiva il bisogno di comprendere culturalmente il SENSO della propria esistenza. Da quel momento, invece, è crollata parimenti la…Cultura…l’Autorità….ed è tutto diventato una marmellata Relativista senza più nessuna distinzione tra bene e male nell’accettazione passiva della INSENSATEZZA della vita compensata solo dalla vittoria del consumo e del denaro. Preciso che non sono mai stato comunista e che quindi quello che dico non è dettato dalla benchè minima nostalgia per quella ideologia criminale. Ciò non toglie, però, che a mio giudizio la gente PRIMA fosse molto diversa. E infine la crisi causata dall’EURO che ha dimezzato gli stipendi di tutti ha fatto il resto. Se vi dicessi quanto guadagnavo io negl’anni ’80 e ’90 non mi credereste. Poi tutto è cambiato e questa è la mia analisi delle ragioni. Non dico che siano giuste. Ve le sottopongo…così….per fare quattro chiacchere visto che, purtroppo, ora, del tempo libero, ne abbiamo a iosa . 🙂
Tiziano, son curioso….quanto guadagnavi negli anni 80-90? Parlando con molte persone della tua generazione (io ho 30 anni di meno) si va spesso a parare sulla questione della redditività del lavoro di quei tempi…ho sentito numeri da capogiro per lavori che oggi sono considerati ridicoli…in 20 anni pare che sia avvenuta una radicale rivoluzione nel modo in cui si produce valore. Grazie della tua riflessione.
Posso essere d’accordo che atteggiamenti negativi sono frutto di un pensiero altrettanto nero, ma consideriamo solo alcuni fattori ?
1. Crisi che viene affronatata dalla politica con leggerezza
2.Ordini degli psicologi che non tutelano i collleghi a fronte di mancati pagamenti , concorsi truccati e mancati incarichi anche in tribunali perchè assegnati a discrezione…
3.ENPAP che butta i miei/nostri soldi in una sede che altrove costava un terzo,
4.categorie che svolgono compiti propri eegli psicologi e sono autorizzati in alcuni casi e in altri assulutamenti sono impuniti,
5. Tasse , ENAPAP comercialista che spremono i colleghi sino a farli ammalare .
sono alcune verità Italiane che altrove esistono in una misura talmente minimale che quasi è da definire nulla .
Grazie Italia per l’aiuto che dai agli psicologi che aiutano depressi, parafilici ,psicotici,coppie in crisi, suicida,vittime di stupri ,madri , padri figli i che vivono lutti, vittime della strada e tanti altri .
Davide dr. Vanni
pienamente d’accordo Davide. Sinceramente mi risultano stucchevoli i commenti sopra, e molti altri, che dicono “facciamo rete, teniamo duro, questo e quello” con una superficialità psicologistica degna….di psicologi!Io capisco che a psicologia non si studi sociologia (o la si faccia con Spano…è uguale) ma da diversi anni m accorgo come gli psicologi abbiano proprio dei limiti strutturali nel compiere anche basilari riflessioni e analisi socio-politiche. Cioè, comprensione del contesto dove si vive pari a ZERO. Comprensione disincantata delle dinamiche politiche di base pari a MENO UNO. Comprensione della basilari leggi dell’economia pari a MENO MILLE. Difficile che una tale classe professionale, con tali lacune, combini qualcosa di valido a livello politico, manageriale e gestionale. Ordine, Enpap e miserrime capacità di incidere sulla società, infatti, son lì a ricordarci ogni giorno le nostre inettitudini radicali verso il mondo reale.
Certo che il mood depressivo a volte oltre ad essere invalidante per l’azione è anche ostacolante per l’apprendimento e risulta talora di una sconfinata banalità, della serie “signora mia… piove, governo ladro”.
Confrontarsi sui fatti anziché sulle chiacchiere con altri colleghi che hanno fatto gli stessi percorsi 10-20 anni prima di voi e che hanno studiato più a lungo e più approfonditamente di voi il problema forse sarebbe più auspicabile, io penso. Personalmente parlo sono per esperienza diretta oltre che per approfondimenti precisi. Ad es. tutte le ricerche svolte del decennio 2000-10 dai vari ordini sullo stato della professione. Le conoscete? Le avete lette attentamente? Non credo proprio. Avete mai seguito personalmente per anni i percorsi di start-up di vostri colleghi giovani nella città con più alta densità e competizione del mondo? Non credo proprio.
E come dicevo nel precedente post, a certe condizioni di partenza e a certe condizioni di investimento lavorativo, i risultati continuano ad arrivare ancora oggi, in piena crisi, ed infatti esistono ancora oggi buone pratiche di start-up che naturalmente NON possono essere esportate a tutti i colleghi, ma solo per i più capaci e svegli. Anche perché, come si evinceva in parte dal mio precedente intervento, penso proprio che esista un oggettivo (e sacrosanto) darwinismo professionale che anticipa di molto ogni discorso di scenario possibile. Hai voglia a lamentarsi di questo e di quello… Se non si è capaci, non valgono nemmeno i piani Marshall!
Se poi si preferisce assumere il nihilismo come visione del mondo, be’, io mi taccio e non ho null’altro da dire.
carissimo Luigi
sono contento che la tua professione funzioni.
Mai sofferto perchè colleghi possano fare e esercitare con i giusti compensi e soddisfazioni che meritano.
Ma non hai risposto alla mia , leggi attentamente:
non ho chiesto aiuti nè dagli americani nè dall’ Italia(impossibile che possa aiutare qualsiasi).
Io non mi lamento ma denuncio fatti reali che sono comprovabili.
Lavoro come libero professionista e ciò che ho scritto corrisponde al reale e non come scrivono alcuni che con “amore e fede si vince!”
Non sono nichilista ma vedo con realtà il mondo e ciò aiuta mè e i miei pazienti.
Saluto tutti con rispetto e simpatia ora vado a lavorare per l’ENPAP che la pensione non me la darà mai e per lo Stato che le tasse se le mangia senza negatività ma con sano senso di realtà.
Davide Vanni
C’è questa leggenda che circola fra noi, secondo cui l’ENPAP non ci darà mai la pensione. Lo dicono in tanti, e veramente non capisco in che senso lo si dica: l’ENPAP darà la pensione a tutti gli iscritti che versano contributi.
Si può discutere sul metodo di calcolo, sul fatto che i liberi professionisti percepiranno una pensione minore rispetto a quello che tradizionalmente siamo abituati a chiamare ‘pensione’, ma di certo non è vero che non vedremo mai una pensione.
Peraltro il denaro versato all’ENPAP è immediatamente controllabile in area riservata: voglio dire, con due click si vede quanto uno ha accumulato, che rendimento ha perseguito. Prova a farlo con l’INPS, se ci riesci 😉
Davide, rispondevo in verità più ai de profundis di “luca” che a te, ma vedo che ti ha nel frattempo risposto Federico.
Io ad esempio sono ancora un novellino a cui mancano un paio di materie per terminare la specialistica, e sia nel post che nei commenti ho purtroppo notato che si parla in termini piuttosto vaghi, in modo pessimistico o ottimistico, ma senza suggerire alcunché di concreto. E’ vero che attualmente la situazione tende al negativo, ma -proprio noi- dovremmo pensare a quale cambiamento è possibile piuttosto che piangerci addosso o rallegrarci dei successi. Dal mio punto di vista sarebbe utile adottare prima di tutto un approccio olistico, perchè, ad esempio, non è il paziente a doversi adattare alla/e nostra/e teoria/e ma le teorie a dover aiutare il paziente; informarsi sulle nuove scoperte, ad esempio delle neuroscienze e non rinnegare nulla (vedi ipnosi o approcci che ci stanno “antipatici”); nonché impegnarci nella diffusione pubblica della “nuova psicologia”. Per quanto riguarda l’Ordine,(che comunque dovremmo sollecitare maggiormente piuttosto che continuare a lamentarci tra di noi), di certo, versa in uno stato di semi-immobilismo, ma credo che purtroppo sia espressione di ciò che avviene all’interno della categoria. Cambiare dal basso è insomma la necessità, aprendosi a nuove aree lavorative e prospettive professionali (vedi psicologia del lavoro o neuroscienze), sollecitando i vertici ed informando la gente su ciò che veramente lo psicologo fa e può fare, (sarebbe infatti saggio smetterla con le masochistiche ed elitarie tendenze all’autoreferenzialtà che spesso ci contraddistinguono). Change is possible.
Perfetto! Se mi piacesse il termine “terapia” direi che a questo punto lo psicologo dovrebbe fare terapia alla psicologia e a tutto ciò che ne deriva. Il fatto che venga da dire che “Change is possible” deriva da un eccesso di inadattività; da un miraggio di eternità decisamente “patologico”. Change isn’t a choice: life IS Change!
Luigi, nessun de profundis, solo una constatazione disincantata della situazione professionale proiettata su come sta cambiando il Paese e la società. Sono sicuro che quello che dici sia vero, ma è sempre nicchia, nicchia, nicchia. Complimenti, ma è nicchia. Non sfiora minimamente i problemi presenti e futuri della professione. Bravo a te e alla tua attività di scouting, ma curi ovviamente il tuo giardino. La professione collasserà, ed è ovvio che qualcuno si salverà sempre per darwinismo. Ma attenzione, non si può negare un collasso solo perchè lo 0, % riesce a salvarsi. Nel suo insieme, la professione così come abbiamo inteso il termine “professione” fino ad ora a partire dagli anni 80 è FINITA. Lo dicono tutti.
Alberto, anche tu purtroppo ripeti refrain arcaici che si sentono da almeno 15 anni, ma sei perdonabile perchè ancora specialistico. Ci sian passati tutti, è una fase della vita professionale, non ci scappi.
Per quanto riguarda L’Enpap: versando quello che si versa, ai ritmi di rivalutazione presenti e (presumibilmente) futuri, si riceverà di assegno quanto basta per una pizza e birra mensile. Forse anche per una cena al ristorante dai, ma nulla più. La gestione separata versa 27,72 % e vogliono portarlo nel 2018 al 32, gli psicologi versano % risibili….non avranno niente, e probabilmente al primo inghippo finanziario l’Enpap collasserà. Ripeto, io di natura son un ottimista, ma serve essere anche realisti per fare le scelte migliori. A sentire Luigi mi par di sentire Berlusca, quando diceva che la crisi era “psicologica”…s’è visto. Dai ragazzi, serve probabilmente cominciare ad autoformarsi in maniera seria all’imprenditorialità, ma senza le storielle da start up digitale e alla fuffa del biglietto da visita e dell’automarketing attraverso i social network, son cazzate assurde, spero che ormai si sia capito. Buon lavoro a tutti.
Allora, discutere fa sempre bene se serve a far prender aria al pensiero, ma un po’ di metodo non guasta mai.
Distinguiamo fra quello che è un problema di dimensione politico-economica che va affrontato in quelle – sempre meno praticabili, è vero – sedi, quella che è una discussione disciplinare e quello che è un dibattito sulla professione. A proposito di quest’ultimo occorrerebbe ulteriormente distinguere fra la dimensione istituzionale e quella organizzativa andando ad individuare se e che cosa può essere cambiato prima di cambiare istituto.
@Luca:
1. Pensione.
Il problema pensionistico non è solo degli psicologi, ma di tutti coloro (imbianchini, biologi, veterinari, astrofisici) che lavorano da quando vi è il sistema contributivo: riceverai di pensione quello che versi durante la tua carriera lavorativa.
Versi tanto, ricevi una pensione adeguata; versi poco, ricevi una pensione ridotta (o anche ridottissima).
L’ENPAP, a livello di contributo soggettivo, chiede meno di quasi tutte le altre Casse 96; hai comunque la possibilità di personalizzare con grande flessibilità l’entità dei tuoi versamenti previdenziali sul soggettivo, modulandoli come preferisci tra il minimo obbligatorio (il 10%) e un ben più robusto 20%.
E’ una tua libera scelta, che dipende anche dalle tue disponibilità, dai tuoi flussi di cassa, dall’attività che stai svolgendo, dalla tua programmazione economica a medio-lungo termine, da eventuali Secondi Pilastri, altri investimenti, etc.
Certamente, se versi solo il 10%, hai un basso reddito, e non hai altri Pilastri, la pensione sarà bassa, semplicemente perchè avremo indietro sostanzialmente quanto abbiamo versato.
Ripeto, problema che coinvolge ormai tutti coloro che hanno iniziato a lavorare (in qualunque settore e con qualunque ruolo) negli ultimi tre lustri circa.
2. Promozione professionale.
Ma chi ha mai detto che basta il biglietto da visita, o, come dice Davide “amore e fede” ? 🙂
Lavorare in logica imprenditoriale è una cosa complessa, molto impegnativa, e che richiede numerose, solide, competenze extrapsicologiche (che purtroppo molti colleghi non ritengono ancora di voler/dover/poter acquisire): economia, bilancio, diritto amministrativo, marketing, project management, financing, capacità di innovazione di prodotto e di processo, mindset da imprenditore.
Competenze e atteggiamenti da acquisire in maniera solida, e molto tecnica; e da applicare poi in maniera decisamente proattiva e costante.
Il problema è che spesso i colleghi si “autoritengono” proattivi, ma se poi gli vai a chiedere (ad esempio) a quante europrogettazioni FSE abbiano lavorato, o quanti progetti imprenditoriali abbiano strutturato e presentato professionalmente per cercare un seeding in ambito health/social, o a quante business/innovation competitions abbiano partecipato con proposte originali, o se sappiano fare un business plan strutturato della loro attività, o come stanno innovando tecnicamente i processi e prodotti acquisiti nella formazione, di solito riscontro un silenzio perplesso.
Ecco, quando avremo capito che l’acquisizione di tali skills e logiche è *parte integrante e strutturale* della propria attività professionale quotidiana (e non un “extra”: è proprio al cuore del lavoro), e questo vale sia che tu sia uno psicologo dello sviluppo che uno psicoterapeuta, sia che tu sia psicologo del lavoro o che ti occupi di CTP… allora, forse vedremo un parziale cambiamento nel panorama professionale categoriale.
Ciao,
Luca
Tutto perfetto Luca, dissento solo sul fatto che le altre professioni hanno definito fin da subito l’obbligatorietà di un contributo % abbastanza congruo all’ottenere una pensione un minimo decorosa, gli psicologi no. La gestione separata non mette un minimo ridicolo e poi, se vuoi e riesci, versi di più: ti cucchi il 27,72 comunque, infatti molti chiudono anche per questo. Lo stesso artigiani e commercianti, 21%. Lasciare discrezionalità a gente come gli psicologi che di economia previdenziale sa zero e ha redditività professionale bassissima soprattutto i primi anni è il modo migliore per sfornare generazioni di pensionati letteralmente sotto un ponte. Ma pazienza.
In teoria, un professionista non dovrebbe essere un imprenditore. Le due cose sono concettualmente molto diverse fin da quando sono nate, e le caratteristiche di personalità necessarie per i due ruoli, se vogliamo restare nello psicologico, molto diverse. Lo dicono innumerevoli studi. Che poi al giorno d’oggi ci sia una imprenditorializzazione spinta non solo di molti lavori (ormai dicono anche al dipendente di “pensarsi” imprenditore, che cazzata immane) ma proprio della vita stessa. Moltissimi si fanno male, ma molto male, perchè partono come barchette a remi in mezzo al Red Ocean, ne vedo ogni settimana occupandomi anche di imprenditorialità.
A volte mi sembra che dire ad uno psicologo/psicoterapeuta: ok, adesso che hai studiato per bene, change your mindset a “imprenditore” sia come cambiargli le regole del gioco mentre si sta giocando, e in parte è così. Non è ancora affinato come “professionista”, e gli si chiede di implementare un’altra logica, certo con alcune affinità, ma secondo me ala fine radicalmente differente? Alcuni sclerano, davvero.
Il prototipo di professionista nella testa degli psicologi è ancora quello dello studio tipo freud nella Vienna del 1900…te li raccomando, roba da essere disadattati clinici! Vaglielo a spiegare: ti dicono che sei liberista, che a loro i soldi non interessano, che vogliono aiutare le persone, che se volevano fare gli imprenditori studiavano ingegneria (!), che non si fanno i soldi sulle sofferenze delle persone….si alzano non solo muri, ma proprio linee antiaeree…pazienza, che continuino così.
Mi rendo sempre più conto di quanto la classica formazione psicologica produca grande rigidità mentale e paura del cambiamento come standard di base…alla faccia dei pazienti che si vorrebbe aiutare a far cambiare e migliorare la propria vita. Grazie della bella e buona risposta.
Luca
Ciao Luca,
condivido il senso della tua riflessione.
Sicuramente, uno dei problemi principali della categoria è proprio questo: pensarsi rigidamente (e autoconfermativamente) “in un certo modo e nient’altro che quello”, secondo una logica Aut-Aut invece che Vel-Vel. Posso essere psicologo scolastico E propormi con logica imprenditorial-proattiva, senza che le due dimensioni siano necessariamente in contraddizione (e nemmeno anti-etiche, oltre che… antitetiche).
Lo psicologo invece si costruisce e mantiene un’identità a volte rigida e monocorde. Come a dirsi: la mia identità è quella – e nient’altro che quella – di “psicologocheparlaconipazientiinstudioimpegnatoinmissione”; e la percepisco quindi in contraddizione con quella di “professionista che si muove con logica imprenditoriale e proattiva”, che si preoccupa di aspetti (peraltro elementari) di logica previdenziale, che acquisisce un mindset in cui l’innovazione di processo e di prodotto implementato sul mercato (e il modo in cui la posiziono attivamente sul mercato) sia alla base della sostenibilità economica dell’attività svolta.
Una carenza, a mio parere, degli studi psicologici è la scarsa compenetrazione con elementi formativi di tipo economico, giuridico e di project management; aspetti “del principio di realtà” che sono assolutamente ineludibili per un professionista psi- oggi. Tecnicamente, ma anche “mentalmente”.
Sul “limen funzionale” tra professionista e imprenditore sono in parte d’accordo, anche se credo che anche in quel senso il confine stia diventando molto più “blurred” di qualche anno fa: la logica imprenditoriale sta diventando centrale anche nell’innovazione sul mercato dei servizi, dove le vecchie logiche professionalistiche stanno mixandosi – nei business models – con quelle più impreditoriali (e viceversa, in determinati settori di mercato).
Interessante a tal proposito, un recente articolo sulla Harvard Business Review, che rifletteva sulla crisi identitaria anche del settore della Consulenza high-end, in cui il ruolo identitario e funzionale tra professionisti e imprenditori della consulenza si sta integrando ed evolvendo significativamente.
Ma il tema qui è ampio, e complesso; diciamo che sarei contento almeno se la maggioranza dei colleghi iniziasse, se non altro, a porsi il problema di diventare più proattivo e innovativo nei servizi offerti…. 🙂
Ciao, alla prossima,
Luca
Grazie della risposta Luca, condivido in pieno. Poi mi citi pure HBR e vado in eccitazione quasi fisica 🙂 Buon lavoro, speriamo che su queste base la situazione migliori, cioè che si cominci almeno a porseli, i problemi veri e importanti. Ciao!
Un bell’esempio di espulsione degli elementi aderenti ad un “principio di realtà” che Pezzullo segnala, lo si vede bene nei percorsi di psicologia del lavoro (che è il mio percorso universitario). La pressochè totale mancanza di questi aspetti nei nostri percorsi universitari, ha difatti impedito a chi frequentava questi percorsi di accedere alle aziende dalla porta principale. Le aziende si trovavano persone molto preparate sugli aspetti psy, o soft, ma totalmente impreparati dal punto di vista amministrativo, burocratico, giuridico. Sapere cosa è e come funziona una busta paga, cos’è un contratto, cos’è un contratto collettivo, etc etc. A questo punto, le aziende, giustamente mi viene da dire, gli preferivano un laureato in scienze politiche, con all’occorrenza un master in gestione risorse umane, o un laureato in giurisprudenza o lettere. Questo è.
Sacrosanto quello che dici, Alessandro. Infatti uno dei veri problemi è CHI progetta i percorsi formativi, che decide cosa studia uno psicologo del lavoro. Questo poi determina da che porta si entra nel sistema lavoro, e soprattutto da che finestra si verrà defenestrati. L’idea che ho io è che chi decide questo non ha mai lavorato in vita propria nel mondo reale, e quindi prende decisioni DEL MENGA, come diceva mio nonno. Saluti.
“Una carenza, a mio parere, degli studi psicologici è la scarsa compenetrazione con elementi formativi di tipo economico, giuridico e di project management; aspetti “del principio di realtà” che sono assolutamente ineludibili per un professionista psi- oggi. Tecnicamente, ma anche “mentalmente”.” scrive Luca Pezzullo.
Che sembra una cosa complicata, e sicuramente lo è…ma magari basta iniziare anche dalle cose semplici…giusto per iniziare…Ad esempio smettendola di lavorare gratis, magari a partire dalle scuole.
Almeno qui in Campania l’abitudine di molti colleghi è fare sportelli d’ascolto negli istituti gratis per minimo due anni, ma pure da qui all’eternità…
Io da anni mi rifiuto di fare qualsiasi cosa gratis, a parte gli eventi promozionali (e cmq promozionali per me, non per altri). Quindi quest’anno con spirito da commerciale mi sono presentata nelle scuole con una serie di proposte sull’argomento dell’anno (i BES).
I dirigenti sono entusiasti, i progetti rispondono ai bisogni di tutti (pure ai miei!) e sono stati accettati.
Qualche preside, però, non ha potuto fare a meno di commentare – Ovviamente se domani viene una tua collega che me lo fa gratis, io il tuo progetto lo metto da parte e i soldi che spenderei per te li investirei in altro – E gli si può dare torto?
Ed è pure così che la professione “muore”.
Io credo ancora nella psicologia..lavoro sono una dipendente in una casa famiglia e faccio tante cose..associazioni per esempio..formazione….io dico sempre che non bisogna mollare mai!!! credo nello studio privato e lo sto avviando..le soddisfazioni stanno arrivando anche in Calabria detta “terronia” che forse il sociale è proprio una strage in termini che ha bisogno di aiuto….io non mollo!!! e mi aggiorno sempre e faccio corsi….io non mollo!!!!!
Cara Roberta, fai benissimo a non mollare, infatti qui nessuno lo vuole fare. Ciò che mi pare si voglia dire è che tenere duro senza sapere cosa si sta tenendo e perchè non sembra operazione illuminata. Se le cose stanno cambiando, ed è assodato, serve più che altro capire in che direzione e adattarsi darwinianamente, più che rimanere arroccati in ciò che si è sempre fatto perchè “una volta” funzionava….serve capire come sta cambiando il mondo della psicologia e dei servizi psicologici, per non fare la fine di don Quichote…in bocca al lupo!
Credo che possiamo essere tutti un po’ meno angosciati se consideriamo che la psicologia non è morta come disciplina, anzi continua a svilupparsi nel mondo. Il problema, è vero, è lo stato della professione nel nostro paese: ci sono cause ben note della situazione, a cui non si pone rimedio. Alcune cause sono di ordine generale, e non basta certo “imprenditorializzarsi” per superarle; la crisi ecc. Altre sono di ordine specifico, e riguardano le leggi del mercato, innanzitutto domanda-offerta. Non sono economista, ma un economista direbbe subito che ci sono troppi psicologi rispetto a quanto il mercato può assorbire. Ora, per quanto la psicologia evolva e produca nuove teorie e tecniche, ha bisogno di tempo per farlo; quindi nel frattempo il numero crescente di psicologi è destinato a rimanere disoccupato o sottooccupato. Altro problema è il valore economico della professione: quando ci sono squilibri nella domanda e offerta succedono cose strane, come “lavorare gratis” o concorrenze sleali. Tutto qui. Poi sappiamo che deprimersi non è piacevole ma aiuta ad avere un migliore esame di realtà.
A proposito: giusto oggi proposta di lavoro da grande ospedale milanese: tempo determinato, full time.
Compenso offerto: 4 euro lordi l’ora. Mi è stato detto che già alcuni colleghi si erano resi disponibili.
ovvio che si son resi disponibili, intanto “fanno curriculum”! Che illusione sta cosa, persone di ormai 40 anni che lavorano gratis dicendo “intanto sto seminando….” Questo è un discorso che può valere al massimo entro un anno dall’abilitazione, giusto per un rodaggio. Poi o cambia radicalmente, o meglio cambiare traiettoria occupazionale, è una questione di dignità. E senza quella non si è capaci di fare sostegno, counseling o terapia. Proprio no.
Lo psicologo è una professione morta? e quella dell’avvocato? e quella dell’architetto? E chi più ne ha più ne metta. L’architetto non vive di progetti di case. L’avvocato non vive di sole cause. Anche per loro le cose sono cambiate. Mettiamoci pure la crisi economica globale.
Oggi hai la possibilità di fare il trombettista jazz e l’impegato di banca: entrambi hanno la stessa probabilità (scarsa) di accadere. Non esistono più certezze, ve lo dice uno che prima di fare lo psicologo, con una laurea in economia, presa con fatica perché non mi piaceva (presa solo perché c’era l’idea in me che uno laureato in ecnonomia il lavoro lo trova di certo) ha lavorato, gratis, stage, tirocini, pure con stipendio, precario, sfruttato, e poi si è stufato di rincorrere certezze irraggiungibili. Il contatto con la realtà è stato molto duro. Nel frattempo che lavoravo, studiavo psicologia, per amore. Lo stipendio poi non è più arrivato, azienda in crisi e buona uscita per “dimettermi”. Questo è un altro lutto da elaborare: lo stipendio fisso.
Ho dovuto cambiare prospettiva in più sensi: non solo sul cosa fare di lavoro (psicologo invece che impiegato precario che fa un lavoro che neanche gli piace), ma anche come (psicologo = imprenditore di se stesso).
Lo psicanalista degli anni ’80 che mette la targa fuori dello studio e ottiene pazienti, ovviamente non esiste più. Da appena un anno svolgo la professione, e ho elaborato già il lutto: non si vive di colloqui. Però i pazienti ho incominciato a vederli. Ma so che devo puntare anche su altro (comunità terapeutiche, progetti, ecc.)… sempre in mente mi tengo il mantra: “scordati lo stipendio”.
La professione è morta? Di getto direi SI, ma riflettendoci… è morta come certezza di reddito, ma se conoscete persone che fanno altro, avvocato, architetto, e chi più ne ha più ne metta, la storia è sempre quella…tanta frustrazione. Non credo quindi che lo psicologo sia più in crisi di altre professioni (sono tutte in crisi).
Come lavoro clinico…Io credo che il bisogno (elevato) di psicologia va trasformato in domanda (ora bassa) di psicologia. L’offerta (psicologi abilitati) supera la domanda (di clienti/pazienti), è vero, ma c’è una domanda latente, non credete anche voi? Tutti sentono il bisogno di andare dallo psicologo, oggi più che mai, con questo crollo di certezze, che riguarda tutti, non solo lo psicologo. Persone che si astengono dal chiedere aiuto e sostegno allo psicologo, non per mancanza di soldi credo io, almeno non sempre per questo motivo (perché l’i-phone e tecnologia apple ecc. se lo comprano, e pure a rate) ma perché, io credo, hanno paura, non vedono bene lo psicologo, temono di fare un lavoro di approfondimento su loro stessi. Come sollecitare questa donmanda latente, affiché andare dallo spicologo sia normale come andare dal dentista o quant’altro?
Per non far morire la professione, forse dovremo chiederci: come possiamo attivare quella domanda potenziale, ovvero trasformare il bisogno (di psicologia) in domanda (richiesta di servizi di psicologia)?
Avete presente “le soluzioni che mantengono il problema”? Per caso, ci stiamo infilando in un circolo vizioso dove le soluzioni al problema che stiamo adottando (ognuno pensi alle proprie, come cerca di trovare lavoro, pazienti e quant’altro) siano una fonte di peggioramento del problema stesso (strategie come lavorare gratis, fare colloqui gratis, mendicare attenzione ai medici, volontariato, specializzarsi sempre di più, ecc,).
Non ho soluzioni, ma solo riflessioni.
Un saluto a tutti e buon lavoro.
Non so chi Ganapati sei, ma parli con lingua dritta, ugh!
Puro Sutra.
La risposta l’hai data: è nel percorso e non in un cazzo di pappa pronta. Non lo è mai stato, specie adesso che in troppi hanno speculato per troppo tempo su troppe cose.
Creatività, olio di gomito, altruismo e energia senza troppe garanzie.
Magari non sono le speranze ma sono i fatti.
Caro Ganapati, condivido pienamente la tua lettura, e l’individuazione del nucleo del problema: il passaggio da Bisogno generico e diffuso, a Domanda economicamente strutturata e professionalmente canalizzata.
Per stimolare la trasformazione da Bisogno a Domanda, tanto devono fare per primi gli psicologi stessi, che devono uscire da un’atteggiamento in tal senso molto passivo e di “attesa magica”, riconoscendo questa esigenza di orientare molto attivamente la propria attività: parlando linguaggi adeguati, comprendendo le logiche “altre” da quella psicologica, innovando strutturalmente molte soluzioni proposte, trovando modi diversi di attivarsi sul mercato, raggiungere il proprio target e intercettare questi bisogni/domande. Insomma, di “value proposition” se ne possono fare molte, e di serie, se si vuole entrare in quest’ottica 🙂
Condivido anche le tue riflessioni, più generali, sulle evoluzioni del “professionalismo” in questi anni, e delle sue nuove dinamiche funzionali e socioeconomiche.
Grazie del bel contributo!
qui si entra nell’ambito del meta-professionismo, la riflessione raggiunge gradi iperbolici che darwinianamente esclude i più. Oltre a fare il professionista (come una votla), oggi si dovrebbe essere capaci di costruirsi le condizioni stesse per poi poter essere professionisti. E’ come capire che tipo di barca serve, e costruirsela, mentre si precipità giù per le rapide di un fiume…sarà stimolante intellettualmente, ma in massimo grado impossibile ragazzi. Diciamocelo. Faranno la professione gli stessi di una volta, quelli di famiglia buona che lo fanno per avere una qualcosa da fare ma non per vivere, perchè già hanno ricchezze proprie. E ricordiamoci che in un passato non molto lontano era così. E’ l’illusione degli anni Settanta il “tutti all’università e tutti professionisti in carriera”, miseramente sfumata in questi ultimi 10 anni….rendiamocene conto. Non è che si è obbligati. Non p questione di dire “io ci spero comunque”. Non si tratta di speranza, si tratta di struttura della realtà attuale, più dura del granito a volerlo capire. Se da quando hai 19 anni a quanto ne hai 30 ti formano passando, in maniera conscia e inconscia, che la professione è questo, quello e quell’altro è INUTILE poi dire: ah no, scusate, è tutt’altro! Si è in gran parte bruciati, perchè non ci sono le premesse informazionali giuste per connettersi col mondo in maniera produttiva. Ce la fa il figlio di papino, come quel mio amico che ha iniziato a guadagnare come notaio a 48 (!) anni, adesso gira in Audi RS6, ma prima si è solo dedicato ad accumulare capitale intellettuale perchè di quello economico garantiva la famiglia. Diversi psicoanalisti che conosco idem. Se lavoro bene, se non lavoro rifletto e vivo. Qualcosa arriverà. Tanto campo uguale. No mutui, no vincoli, no rate, no scadenza. Tutti gli altri son fuori.