Bibbiano è un amaro e lontano ricordo, eppure non vi è dubbio che quei fatti abbiano contribuito a stendere una densa aura di discredito sulla professione di psicologo, professione che di questo non aveva certo bisogno.
I più colpiti da questa ondata di scetticismo inevitabilmente motivato sono psicologi giuridici e periti, ossia gli appartenenti di quel mondo, di cui anch’io faccio parte, che si compone, nella stragrande maggioranza, di persone serie e competenti, di tecnici ed esperti cui vengono affidati compiti complicati e delicatissimi, come quello di esprimersi circa la capacità a testimoniare di una presunta vittima di violenza, o quello di relazionare circa le capacità genitoriali di qualcuno.
Ebbene, in questo mondo è diffusa una verità parzialmente nascosta ai più, ma certamente nota a tutti gli addetti ai lavori, un’evidenza secondo cui esiste una nicchia minoritaria, ma non proprio numericamente indifferente, di colleghi che agisce sulla base di quelli che potremmo chiamare “pregiudizi tecnici”. Ora, che dei tecnici cui lo Stato affida un bene prezioso possano collaborare al fine di alimentare un sistema con uno scopo preciso e preordinato, come ad esempio l’allontanamento di bambini dalle famiglie d’origine o la condanna di un sospettato senza prove sufficienti, è chiaramente un’idea odiosa, socialmente pericolosa e anche professionalmente svalutante. L’immagine stessa del tecnico che fonda la sua condotta sul pregiudizio è ossimorica in essenza e in esistenza, essa stride, infatti, nella teoria e nell’atto, con la peculiare aspettativa di “neutralità” scientifica che giustamente il cittadino sottoposto a giudizio civile o penale si aspetta nel momento in cui si affida ad un esperto. Non si tratta di illudersi sul tema della neutralità della scienza, infatti difficilmente il pensiero umano riesce a produrre dei contenuti appartenenti alla verità oggettiva e questo ce lo diceva già Feuerbach: «La questione se al pensiero umano appartenga la verità oggettiva non è una questione teorica ma pratica. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica». Dunque, la scienza non è neutrale, e pace.
Tuttavia, quando lo psicologo consulente presta giuramento, secondo l’art. 193 del codice di procedura civile, giura di bene e fedelmente adempiere al proprio compito al solo e unico scopo di fare conoscere al giudice la verità, accettando de facto una tensione ideale rivolta a quella verità, che egli dovrebbe accogliere in modo neutrale. Ma come si fa, come si cerca la verità? Ecco che, in questo caso, può essere utile riprendere Popper e il suo “principio di falsificabilità”, ovvero l’assunto secondo cui è necessario il controllo di ogni propria convinzione attraverso il tentativo sistematico di provare a confutare ogni punto cui si giunge nel corso del proprio lavoro. Tale principio, nell’ambito delle scienze umane, è il solo che consente di appellare il proprio lavoro come “scientifico”.
Eppure esistono due modalità di esecuzione di un compito tecnico di valutazione e se la prima è scientifica e poggia su un imperativo antico, di matrice socratica, che consiste nell’imporsi di tenere a mente il proprio “non sapere” e di procedere tentando sistematicamente di falsificare le proprie convinzioni interrogandole criticamente e verificandole giustapponendo ad esse soluzioni alternative; la seconda, al contrario, è aprioristica e confermativa di una posizione già data. Qui si tratta, dunque, di una questione etica, di prassi, di una tensione ideale nell’esercizio del proprio compito.
Ora diamo un’occhiata dentro questo vaso di Pandora che già ci appare a dir poco e correttamente inquietante.
Può succedere, infatti, di incontrare due differenti tipi di psicologi che vanno alla verifica di fatti di cui sono fermamente convinti ancor prima di iniziare una perizia o una consulenza.
Chiameremo negazionisti coloro che negano sistematicamente la violenza e abusologi quelli che mirano alla dimostrazione della colpevolezza di autori di reati, tipicamente di abuso sessuale su minori.
Segnalo, per par condicio, che nel corso degli ultimi nove anni in cui ho affiancato il ruolo di psicologo giuridico a quello di consigliere dell’ordine degli psicologi, ho segnalato alla Commissione Etica dell’Ordine due soli colleghi, l’uno appartenente alla prima categoria, l’altro alla seconda. Entrambi i casi mi sono sembrati, e tuttora mi sembrano, di gravità non inferiore rispetto a quelli che sono balzati ai discutibili onori della cronaca nei casi mediatici sul collocamento di minori. Uno di questi due casi, che ha interessato anche “Striscia la Notizia”, ha a che fare con un abuso, “confermato” da una perizia, che è la summa di tutto ciò che non si dovrebbe fare in un accertamento, manuale del Fornari alla mano. L’altro caso riguarda, invece, una situazione di violenza intrafamiliare che è stata del tutto “cancellata” da una collega in area bresciana e che ha ad oggi di fronte a sé una storia che ancora deve essere scritta.
Il profiling del negazionista
Lo psicologo negazionista si riconosce quando una c.t.u. riguardante l’affidamento e il collocamento di minori incrocia una dimensione di dichiarata violenza intrafamiliare.
In questo caso il negazionista, entusiasta delle proprie convinzioni, farà di tutto per evitare i racconti riguardanti sia la violenza subìta dalla vittima che quella cui hanno assistito i minori. A nulla servirà ricordare che la Convenzione di Istanbul prescrive chiaramente che “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, vengano presi in considerazione gli episodi di violenza1” né che le linee guida pubblicate dal CSM nel maggio del 2018 sostengono che “può accadere che in sede civile i consulenti incaricati di verificare le capacità e idoneità genitoriali ignorino la realtà familiare che emerge dalle indagini disposte in sede penale, con effetti di vittimizzazione processuale sul coniuge o sui minori vittime2”. Nel peggiore dei casi il negazionista più pervicace arriverà perfino a deviare e a snaturare i colloqui clinici, proprio al fine di evitare il tema cruciale della violenza.
Presumibilmente egli adotterà fumose giustificazioni per isolare la dimensione della violenza e ricollocarla nell’area penale, estromettendola così, di fatto, da qualunque valutazione che lo riguardi; non esprimerà una parola su cosa ha significato essere stati genitori o figli in un contesto evidentemente reso difficile dalla violenza e non si pronuncerà circa le difese che il genitore violento adotta o sull’eziologia della sua perdita di controllo degli impulsi. Eppure, l’esercizio della violenza non può essere del tutto irrilevante nell’ambito di una valutazione della genitorialità, questo perlomeno secondo le tre più diffuse linee guida per la valutazione delle competenze genitoriali: quella sulle dodici funzioni genitoriali individuate da Gian Luigi Visentin3 attraverso la sua nota meta-analisi della letteratura, quelle pubblicate recentemente da Camerini, Volpini e Lopez4 e quelle del Cismai. Il risultato grottesco del negazionista è, dunque, quello di parzializzare drammaticamente e a senso unico la propria valutazione, ingiungendosi di dedurre le dinamiche familiari e la personalità dei genitori da fatti altri, da fatti minori, al puro scopo di negare la dimensione di violenza in cui la famiglia è vissuta, pur avendo riscontri manifesti nei vissuti degli attori della vicenda. Anzi, proprio perché il consulente civile è libero dall’obbligo di esprimersi sulla rilevanza penale di quanto riscontra, egli può decidere di limitarsi, come fa su tutto il resto della vita dei propri periziandi, a registrare il vissuto delle parti e a formare su questa base viziata la propria opinione clinica e tecnica.
Oltretutto, il negazionista spesso sbandiera e impone un’idea di bigenitorialità completamente sbagliata, forzosa e semplificata all’estremo, in virtù della quale i genitori dovrebbero in qualche modo relazionarsi anche successivamente alla propria separazione, questo quasi a trasformare la c.t.u. in una sorta di parodia di una mediazione. Se ne ha la possibilità, nel caso in cui i bambini fatichino a incontrare il genitore abusante o violento, il consulente negazionista facilmente utilizzerà l’arma spuntata dell’alienazione, accusando di PAS il genitore che protegge il figlio dall’incontro con il padre abusante o di ledere il diritto di accesso dei figli a entrambi i genitori.
Nei casi peggiori, il negazionista può essere addirittura un esperto di falsi ricordi e sembrare convinto che la maggior parte delle dichiarazioni di violenza siano false e artefatte.
Generalmente, nel testo della consulenza si ritroveranno contenuti che ribaltano la realtà, svalutando o, peggio, colpevolizzando la vittima sulla base del fatto che le dichiarazioni di violenza subìta o assistita vengano interpretate come un effettivo ostacolo alla possibilità per il genitore violento di frequentare i bambini, i quali spesso chiedono solo di essere protetti. La tesi del negazionista è di frequente la stessa: se la madre ha sopportato una situazione di violenza, essa ha avuto la colpa di non proteggere per tempo i bambini; se li ha portati via, è un genitore alienante. In questo modo, per il negazionista, una vittima di violenza sarà sempre colpevole.
È evidente che nei casi peggiori lo psicologo negazionista produce un effetto iatrogeno e un’acuta sofferenza, sotto forma di vittimizzazione secondaria, nelle vittime che hanno la sfortuna di essere ascoltate, magari dopo anni di violenza, da questo tipo di colleghi.
Il profiling dell’abusologo colpevolista
È indispensabile una premessa sull’incontro con l’abusologo. Egli è spesso preannunciato da un quesito peritale sbagliato, tra quelli indicati da Fornari nel Trattato di Psichiatria Forense: “In questi ultimi anni si è assistito a un incremento sensibile di (…) richieste di accertamenti sull’idoneità mentale di bambini e di minori in genere a rendere testimonianza attraverso la formulazione di quesiti peritali che non sempre tengono conto della differenza fondamentale tra verità processuale e verità clinica. Infatti possono venire proposti al perito quesiti errati del tipo: “verifichi il consulente o il perito se AB manifesti anomalie o disturbi della sfera della sessualità o dell’affettività che possono trovare origine spiegazione nella presunta violenza”; “dica se esiste compatibilità tra il profilo di personalità di AB e le dichiarazioni rese”.
In questi casi, l’equivoco sul proprio ruolo diventa il prodotto di una responsabilità condivisa. Dal momento in cui lo psicologo accetta il mandato di dichiarare qualcosa che non è scientificamente possibile dimostrare, ovvero di produrre una prova dell’abuso commesso, il perito sarà indotto dal quesito stesso o dalle proprie personalissime convinzioni a lavorare in una direzione data. E poiché la perizia in sede penale ha valore di prova, si può ben comprendere quali possano essere le conseguenze di un atto tecnico condotto sulla base di queste premesse. Gli strumenti che il tecnico verificazionista utilizzerà, dai colloqui ai test, saranno piegati, modificati, deformati allo scopo di dimostrare un nesso tra personalità e reato. Non di rado il tecnico tenderà ad andare anche oltre i confini del quesito che gli è stato posto; alle volte perfino ometterà gli obblighi di verbalizzazione e di video registrazione dell’audizione dei minori o della somministrazione dei test. Non citerò la possibilità che parti dell’accertamento possano essere inventate di sana pianta, per quanto questa possibilità di fatto esista e sia drammaticamente ingenuo negarlo. Tuttavia, la colpa primaria dell’abusologo, il peccato originale insito in questo approccio è sempre e comunque lo stesso, è uno ed è preciso: consiste, senza ombra di dubbio, nella suggestione cui sottopone i minori coinvolti, un’arte che l’abusologo ha maturato nel tempo, un’abilità specifica e un’attitudine indiscussa. Per questo l’abusologo tendenzialmente respinge la Carta di Noto, perché la suggestione dei bambini è di fatto il suo strumento principale di lavoro. In questo modo, dopo aver ricavato da un colloquio o da un test proiettivo conclusioni arbitrarie su un abuso subìto o commesso, la perizia viene così consegnata. Le conseguenze sono immediate e di solito gravissime. Perché lo fa? Mi sono convinto che gli abusologi siano dei missionari, convinti di vedere violenza ovunque e persuasi del fatto che sia un loro compito dimostrarla o aiutare a produrre delle prove.
Conclusioni amare
È difficile comprendere come consulenti e periti di questo tipo continuino a lavorare, poiché essi sono ben noti a chi vi opera insieme. È difficile non pensare che vi siano precise reti di interessi, o, in buona fede, gruppi di veri e propri individui votati a cause ideali, che hanno perso il senso del limite e che si muovono in ottica meramente verificazionista. E’ difficile accettare che a questi colleghi vengano consegnate responsabilità con la veste di pubblici ufficiali, a meno che si voglia ottenere proprio quel particolare esito dalla consulenza affidata.
Più scolastica e astratta è la domanda sull’origine dei negazionisti come degli abusologi; ovvero da dove provenga il pregiudizio che vogliono verificare. Di fatto in entrambe le ipotesi, il dolo o una buona dose di tronfia ignoranza, magari nutrita da posizioni ideologiche che affondano le radici in tempi antichi, costituiscono comunque un gravissimo vulnus per la nostra professione, che sarebbe compito delle commissioni etiche degli ordini professionali prevenire ma soprattutto reprimere con sanzioni che impediscano a questi colleghi di nuocere ulteriormente.
1 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, articolo 31, comma 1, 2011.
2 CSM, Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, 9/5/2018.
3 Visentin, Le funzioni della genitorialità, 2011, sito www.genitorialita.it
4 Camerini, Vopini, Lopez, Manuale di valutazione delle capacità genitoriali, 2011