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Il referendum del 21-25 settembre 2023 chiuderà il processo di revisione del Codice deontologico.

Dichiaro subito la mia posizione: è per il SI.

Questo per sgombrare il campo da ogni dubbio sulle mie intenzioni.

Non intendo sabotare il referendum o questa revisione. La sostengo perché alcuni adeguamenti alle evoluzioni sociali e normative non possono più aspettare.

Detto questo,  non risparmierò osservazioni critiche nell’ottica di proseguire il lavoro di revisione. Immagino infatti questo referendum come un tappa e non un traguardo.

Dobbiamo ambire a un Codice sempre aggiornato, capace di dare ordine, chiarezza e orientamento nei problemi emergenti dell’esercizio professionale.

Il mio SI è quindi condizionato all’impegno – che il CNOP si è preso in questi giorni – di proseguire nella revisione complessiva del Codice.

IL REFERENDUM: IL VOTO IN BLOCCO

Partirei da qui: saremo chiamati a votare in blocco, per l’intera revisione, con un SI o un NO.

Qualche collega ha sollevato critiche al voto in blocco, rivendicando il diritto di poter votare per i singoli articoli.

Il problema è che l’attuale struttura del Codice non lo permette: gli articoli sono tutti incardinati l’uno all’altro, e le tematiche principali sono disseminate in ordine sparso al punto da costituire un corpo unico e non approvabile a moduli.

Come altri Codici italiani (avvocati, ingegneri), anche il nostro è diviso per capi in base agli interlocutori: rapporti con la società, con i clienti, con i colleghi.

Il codice di condotta dell’APA, ad esempio, è diviso per temi: il segreto, le relazioni, il consenso.

Varrebbe la pena iniziare a riflettere su una struttura radicalmente diversa, per temi (principi ispiratori, segreto, consenso, qualità, tutela, etc).

Una suddivisione per temi permetterebbe fra l’altro revisioni modulari, monografiche, più agili ed efficaci perché permetterebbero di concentrarsi di volta in volta su temi specifici.

TUTTI GLI ARTICOLI. UN RIORDINO COMPLESSIVO

In scia al paragrafo precedente, andrebbe preso atto con laicità che il disordine presente nel Codice, con un mescolamento di temi che si sovrappongono nello stesso articolo oppure sono diffusi in articoli diversi e distanti fra loro, è un problema da risolvere.

Il consenso informato per le attività sanitarie è attualmente sparso fra gli articoli 24 e 31, ma di consenso parla anche l’articolo 9 per quanto attiene la ricerca e il 18 per la scelta del curante.

Il contratto professionale non viene mai nominato esplicitamente ma è regolato negli articoli 4, 23, 30, 25 e anche in altri articoli.

Le relazioni multiple e il conflitto di interessi, a cui APA dedica una sezione apposita, sono trattati negli articoli 26 e 28.

Il 29, il 5, il 6, il 22, la prima parte del 37, il 27 trattano del buon modo di fare le cose e dovrebbero stare insieme.

L’articolo 8 e il 21 parlano di abusivismo professionale e andrebbero accorpati.

Non è un elenco esaustivo, ma offre un’idea di quanto disordine ci sia: pare il cassetto della biancheria di mio figlio.

E come si fa con un cassetto disordinato, il Codice andrebbe riordinato: calzini con calzini, magliette con magliette.

Questo riordino faciliterebbe pure le revisioni, perché si potrebbe agire su singole sezioni tematiche.

Non era probabilmente il momento, in questa fase storica del CNOP, di operare un riordino così strutturale. Confido nel futuro.

ARTICOLO 41. LA MANCATA RACCOLTA DELLA GIURISPRUDENZA

Passando al metodo con cui la revisione è stata prodotta, ripeterò una notazione già rappresentata in passati commenti: l’articolo 41 del Codice Deontologico prevede che le revisioni si fondino sulla giurisprudenza deontologica.

Che però non è mai stata raccolta in modo sistematico in 25 anni.

La regola è corretta: raccogliere la giurisprudenza è necessario.

Ma pone in capo all’Osservatorio e agli Ordini regionali un onere che non possono soddisfare senza una vera regia nazionale, un coordinamento, degli strumenti tecnici (banalmente, una piattaforma funzionante e utile), e risorse dedicate.

Per uscire dall’impasse va preso atto che il tema è politico ed è nazionale che va risolto con una regia nazionale, che sappia però progettare un sistema compartecipato, attraverso una cooperazione paritaria e sistematica anche nella costruzione degli strumenti tecnici.

ARTICOLO 4. ALCUNI PRINCIPI FONDAMENTALI, INDEBOLITI.

L’articolo 4 nella sua formulazione originaria conteneva un netto richiamo ai diritti umani e civili, all’autonomia e all’autodeterminazione del paziente.

Prescriveva l’adesione ad un chiaro sistema di valori.

Imponeva una scelta a chi volesse essere psicologo: o dentro o fuori, perché la psicologia non è un mestiere qualunque ma è anche una scelta di vita, ispirata ad un preciso sistema di valori.

La nuova formulazione dell’articolo 4 risulta, a mio avviso, più debole.

Intanto inizia con una porzione relativa al contratto, che prima era collocata nell’articolo 24 e che è stata spostata per fare spazio alla nuova caratterizzazione, prettamente sanitaria, dello stesso articolo 24.

Questo incipit crea uno strano effetto di stacco tematico rispetto al resto dell’articolo, che invece tratta di diritti civili e umani.

E poi vengono elisi i riferimenti espliciti alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che forse avrebbero potuto essere lasciati. Di certo non rappresentavano un disturbo per nessuno.

ARTICOLI 24, 31 e 18. IL CONSENSO INFORMATO

Gli articoli 24 e 31 vengono profondamente rivisti, e dedicati espressamente ed esclusivamente al consenso informato in ambito sanitario.

Di conseguenza vengono adeguati alla normativa italiana sul consenso informato, la legge 219/2017, di cui importano stralci significativi.

Condivido la scelta di dedicare alcuni articoli specificamente al consenso informato in ambito sanitario.

Si tratta di un atto peculiare dal punto di vista etico, professionale e giuridico, ben distinto dalla dimensione del contratto professionale.

Alcuni commenti lamentano che in questo modo gli articoli del Codice assumono una forte connotazione medico-sanitaria.

Questo è vero, ma non per colpa del Codice.

Il problema è che in Italia l’unica legge sul consenso informato è fortemente connotata in senso medico-sanitario, perché nasce nel contesto del fine vita e in ambito sanitario.

E la nostra categoria professionale, con tutti i suoi dilemmi identitari ha partecipato ben poco alla redazione della legge 219/2017.

Ed è stata una vera occasione perduta, perché la psicologia avrebbe molto da dire sul consenso informato come atto che struttura la relazione clinica.

La nostra professione, con la sua spiccata valorizzazione della soggettività, è la quintessenza del consenso informato nella sua accezione più attuale.

Avremmo molto da dire e da dare, e invece la disattenzione per questi temi sta diffondendo anche fra noi un approccio adempitivo e burocratico del consenso informato.

Il feticcio della firma sul modulo è l’esempio più evidente di questo deterioramento della cultura etica sul consenso informato.

Chissà che la nuova formulazione del Codice aiuti a ritrovare il senso etico e civile che fonda il consenso informato come atto professionale e non come adempimento burocratico.

ARTICOLO 31. IL MINORE DI ETÀ COME SOGGETTO ATTIVO

Un paragrafo a parte merita il consenso informato per minori e persone con limitazioni della capacità di agire.

La revisione dell’articolo 31 allinea il codice alle previsioni della legge 219/2017, quindi non introduce nulla a cui non fossimo già tenuti come professionisti.

L’aspetto fondamentale che cambia è il recupero della volontà del minore di età come criterio essenziale per la composizione del consenso.

Con la revisione, “La psicologa e lo psicologo tengono conto della volontà della persona minorenne”.

Il dettato è perentorio: è il professionista a dover tenere conto della volontà del minore, in via diretta.

Il nuovo articolo 31 sembra introdurre la necessità che il minore sia visto, sentito, ascoltato, entrando a tutti gli effetti come interlocutore diretto del professionista nella definizione del percorso di cura.

E questo significa che lo psicologo non dovrà più limitarsi ad una funzione notarile del consenso espresso dai genitori, ma dovrà accertare (‘tenere conto’) la volontà del minore.

Per tenere conto della volontà del minore di età, lo psicologo dovrebbe avere accesso al minore stesso. Anche qui c’è un cambio di paradigma rispetto ad un assetto diffuso – a volte perfino troppo difensivo – per il quale se entrambi i genitori non consentono, il minore non lo si può vedere nemmeno in fotografia.

Insomma: questa revisione dell’articolo 31 è destinata a modificare profondamente le prassi professionali, e sono curioso di vedere come, nella pratica, il CNOP, gli Ordini regionali e la comunità professionale sapranno risolvere i nodi applicativi.

Per questo articolo più che per altri, se non si porrà attenzione agli aspetti applicativi si rischierà una disapplicazione massiva del Codice e una raffica di contenziosi.

La revisione risolve poi un contrasto con la normativa, che era presente nella precedente articolazione del codice: in caso di disaccordo non si potrà più semplicemente informare l’autorità tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale ma la decisione sarà rimessa al giudice, in aderenza all’articolo 3 della legge 219/2017.

Tuttavia questa evenienza dovrebbe diventare residuale: se la volontà del minore diventerà realmente dirimente, il contrasto fra genitori avrà sicuramente meno agio nel creare impasse nelle prese in carico.

ARTICOLI 4, 23, 24, 25, 30, 31 E ALTRI. CONTRATTO PROFESSIONALE E CONSENSO INFORMATO.

Connessa alla revisione degli articoli 24 e 31 c’è la questione del contratto professionale.

Il contratto professionale regola i rapporti fra professionista e cliente rispetto alla prestazione d’opera. Affonda le radici nella storia dei rapporti commerciali ed ha una funzione di garanzia della chiarezza degli accordi, anche organizzativi ed economici.

Il consenso informato ha invece una storia e una funzione diversa, si fonda sul superamento di un paradigma paternalistico nella medicina, che ne ha dominato la maggior parte della storia e su cui si sono fondate le peggiori violazioni dei diritti umani.

Nel dedicare gli articoli 24 e 31 al consenso informato, si sono persi gli aspetti contrattuali, che ora sono sparsi un po’ ovunque: 4, 23, 25, 30.

Se c’è un difetto in questa revisione è proprio che perpetua e forse peggiora una scarsa definizione del contratto professionale, e non lo distingue con sufficiente chiarezza come atto autonomo, separato dal consenso informato.

Tenendo conto che il consenso informato riguarda le sole prestazioni sanitarie, mentre il contratto riguarda tutte le prestazioni, si tratta di una carenza non da poco.

Personalmente ne ho scritto ampiamente nell’ultimo anno, e mi ripeto: credo che al contratto professionale andrebbe dedicata una parte specifica e autonoma del Codice.

In questa revisione si è persa l’occasione per farlo.

ARTICOLI 9, 24, 31. CONSENSO INFORMATO PER LA CURA E LA RICERCA.

Il consenso per le attività di ricerca è fratello del consenso informato per le attività sanitarie.

Ne condivide in parte la storia, e i due processi – lungi dall’essere meri atti burocratici – fondano entrambi la loro esistenza sulla tutela dei diritti umani e civili delle persone.

Il primo caso di contenzioso in materia di consenso informato (Slater vs Baker e Stapleton, Inghilterra, 1767) è sia sulla cura che sulla sperimentazione.

I due consensi si incrociano nuovamente nelle tragiche sperimentazioni mediche naziste e nel Codice di Norimberga.

Ricerca e cura trovano, nel consenso informato della persona, una comune radice etica nel riconoscimento che la persona è fine e non mezzo, che il paziente e il soggetto della ricerca sono portatori di diritti.

I due consensi, per la loro comune radice etica, potrebbero utilmente trovare spazio in due articoli separati ma contigui, in una stessa sezione dedicata del Codice.

ARTICOLI 5, 6 E 22. SCIENZA, PROFESSIONE, BUONE PRASSI.

Il principio di beneficità, specifico delle attività mediche e sanitarie, impone di adottare pratiche di qualità e non lesive per le persone.

Nel Codice il principio era già presente negli articoli 5, 6, 22, 29 e in misura minore in altri.

Viene rinforzato attraverso l’introduzione di un richiamo esplicito a linee guida e buone prassi nell’articolo 22.

Linee guida e buone prassi sono indicazioni di lavoro codificate attraverso processi consensuali che coinvolgono clinici, professionisti, ricercatori, cittadini interessati (pazienti e loro famiglie), stakeholder (ad esempio i decisori politici che devono finanziare la sanità).

Non quindi sono regole calate dall’alto, ma il distillato di ciò che la comunità degli interessati ritiene utile o efficace o sicuro in un dato momento storico.

Non lo facciamo solo in sanità.

La ‘Canzone di Marinella’ ha una rigorosa struttura in endecasillabi costruita applicando le buone prassi della metrica. Non è soltanto la metrica a fare di ‘Marinella’ una delle più belle canzoni italiane di sempre. Ma la metrica concorre al risultato.

Linee guida e buone prassi in sanità concorrono a migliorare il risultato dei nostri atti professionali.

Questa la premessa necessaria per un ragionamento sull’innovazione dell’articolo 22 del Codice deontologico.

Il principio in sé è corretto.

Peraltro recepisce anche un dovere già presente nella normativa (Legge 24/2017), a cui gli psicologi sono comunque soggetti.

È la formulazione scelta a non essere convincente.

Il nuovo articolo articolo 22 recita: “nelle attività sanitarie, lo psicologo e la psicologa si attengono alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali”.

È un obbligo perentorio.

Ma la legge 24 dice che “gli esercenti le professioni sanitarie (…) si attengono [alle linee guida e buone prassi], salve le specificità del caso concreto”.

Quel ‘salve le specificità del caso concreto’ cambia tutto, trasforma un obbligo in una indicazione, lasciando ampio spazio all’autonomia del professionista. Che in questo modo può, ma non deve, attenersi alle linee guida e buone prassi in modo assoluto.

Secondo la legge 24/2017 non seguire le linee guida non è un’infrazione, è una possibilità del clinico. A cui si collega uno specifico e più stringente regime di responsabilità.

Invece, secondo il nuovo articolo 22 è una sorta di obbligo (‘si attengono’) senza eccezioni.

Si tratta di una formulazione che, oltre ad essere poco applicabile, configura un contrasto normativo che andrà corretto.

ARTICOLI 11, 12, 13, 15, 16, 17. SEGRETO, REFERTO E TESTIMONIANZA

La revisione di questi articoli allinea il Codice alle norme civili e penali in materia di segreto professionale, gestione delle informazioni e loro comunicazione a terzi.

Nulla da eccepire: la revisione risolve contrasti con le norme che andavano risolti.

Tuttavia denuncia, referto e testimonianza sono situazioni relativamente infrequenti.

Molto più frequenti sono le situazioni di mezzo, tipiche dei contesti istituzionali, in cui lo psicologo deve condividere informazioni con terzi (enti, colleghi, cartella clinica) in un delicato bilanciamento di interessi.

Di queste casistiche il Codice deontologico si occupa solo con l’articolo 15, la cui revisione merita un paragrafo a parte.

Un discorso generale andrebbe fatto sull’obbligo di referto, reperto giuridico di un’epoca storica molto risalente nei secoli. L’obbligo di referto pone il sanitario nella posizione di mero ausiliario della giustizia, e lo costringe ad un ruolo differente e spesso in contrasto con la propria mission professionale di cura.

Aveva un senso fra il ‘600 e l”800, quando i delitti erano frequentemente occultati, ed era necessario obbligare i medici e le ostetriche a fare da sentinelle perché erano i primi ad incontrare gli esiti di avvelenamenti, ferimenti e aborti clandestini. Oggi forse andrebbe rivisto dal Legislatore, ma è un discorso ben più ampio che esubera da questa sede.

ARTICOLO 15: SEMPRE SULLE INFORMAZIONI.

L’articolo 15 tratta della condivisione di informazioni quando si collabora con altre figure professionali tenute al segreto, al di fuori dei casi di denuncia, referto e testimonianza.

Nella precedente formulazione recitava che “lo psicologo può condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione”.

La nuova formulazione aggiunge che può farlo “previo consenso della persona destinataria della prestazione“.

Lo spirito della modifica è condivisibile: non fare le cose sopra la testa del paziente.

Ma sul piano applicativo rischia di mettere in seria difficoltà gli psicologi che operano in contesti istituzionali come i SerD, la salute mentale, la tutela minori, le comunità terapeutiche.

Contesti nei quali non è sempre possibile ottenere o tenere conto del consenso della persona.

Farò qualche esempio: il paziente tossicodipendente irreperibile, per il quale il tribunale chiede informazioni al fine di azioni di tutela in favore dei figli abbandonati a se stessi; l’apertura di un procedimento per la nomina di amministratore di sostegno in assenza di consenso del destinatario, che è un obbligo per i servizi sociosanitari (legge 6/2004); le prese in carico di nuclei familiari, in cui il destinatario non è una sola persona ma più persone; una segnalazione ex. art. 403 cc per la tutela di minori.

Sono tutti casi in cui lo psicologo, quale componente di un’equipe o di una rete di servizi istituzionali, non può esimersi dal trasmettere informazioni, anche in assenza di consenso.

È chiaro che si cerca sempre una collaborazione con la persona, ma non è sempre possibile. E in questi casi, il nuovo articolo 15 complica le cose.

Il principio è corretto.

La formula perentoria però non funziona.

Sarebbe bastato un ‘ove possibile’ per calmierare il precetto e renderlo un’esortazione pienamente applicabile e condivisibile.

ARTICOLI 8 E 21. TUTELA DALL’ESERCIZIO ABUSIVO

All’articolo 8 è stata aggiunta l’aggettivazione ‘presunti‘ ai casi di abusivismo. A mio avviso è un miglioramento: risolve la prescrizione paradossale di segnalare i casi di abuso quando ancora non sono accertati come tali.

Invece le modifiche dell’articolo 21 sono più critiche.

L’articolo 21 nella sua attuale formulazione è stato approvato nel 2013, ed è ancora oggi molto ben formulato.

Tuttavia la giurisprudenza in materia di tutela dell’abusivismo negli ultimi 10 anni si è molto evoluta, articolando il concetto di esercizio abusivo su almeno tre manifestazioni: l’atto materiale protetto, l’apparenza di svolgere una professione in modo idoneo a indurre il falso convincimento di trovarsi di fronte ad un professionista abilitato, il perseguimento di scopi professionali (ad esempio la cura di disturbi).

Volendo correggere l’articolo 21 (e anche l’articolo 8), queste tre manifestazioni avrebbero dovuto essere tutte recepite.

Invece sono stati tolti gli atti, è stato aggiunto il principio di scopo, e non si cita l’apparenza idonea a creare inganno.

La revisione è in linea con l’evoluzione giurisprudenziale nel riferimento agli scopi, ma non sul resto.

Credo vadano meglio chiariti i doveri dello psicologo di fronte all’esercizio abusivo della professione.

È un tema che non può esaurirsi in correzioni estemporanee e va sottratto ad approcci ideologici. Occorrerebbe invece attingere alla giurisprudenza di cassazione in materia di esercizio abusivo, e all’esperienza di altre professioni sanitarie, in particolare medici ed odontoiatri, che sull’abusivismo e sul suo favoreggiamento hanno raggiunto una corposa massimazione.

ARTICOLO 27: UNA SCINTILLA PER LA DIATRIBA FRA PSICOLOGI E PSICOTERAPEUTI.

L’articolo 27 riguarda l’interruzione del rapporto terapeutico. La revisione sostituisce chirurgicamente le espressioni ‘rapporto terapeutico’ e ‘cura’ con ‘rapporto professionale’ e ‘intervento psicologico’.

Ad una prima lettura queste modifiche mi erano sfuggite. Le ho focalizzate dopo una segnalazione proveniente dal vasto entourage degli psicologi non specializzati in psicoterapia, preoccupati da modifiche che sembrano voler diluire la natura clinica delle prestazioni dello psicologo.

Effettivamente mi sembrano modifiche poco necessarie, e poco comprensibili: l’articolo 27 non ha mai destato dubbi, e resta caratterizzato in senso clinico (cfr. uso della parola ‘paziente’).

Per quale motivo rimuovere espressioni come ‘cura’ e ‘terapia’, creando allarme?

Mi pare una scelta che produce complicanze e frizioni, senza generare valore aggiunto.

CONCLUSIONI

Personalmente confermo un parere favorevole a questa revisione, perché risolve alcuni problemi che era urgente risolvere, a patto che sia una tappa e non il traguardo.

Sul piano metodologico, l’assenza di una sistematica raccolta della giurisprudenza è il limite metodologico che trovo in assoluto più problematico.

Il secondo limite metodologico è il processo revisionale, che avrebbe potuto essere più condiviso e partecipato. L’informalità con la quale sono stati accolti alcuni contributi è, dal punto di vista metodologico, un difetto piuttosto che un pregio. I contributi della comunità professionale andrebbero raccolti e fatti confluire nelle revisioni in modo strutturato e tracciato, assumendosi poi la responsabilità di scegliere come tradurli.

Considero questa revisione un lavoro di transizione, che spero inauguri una nuova fase in cui le revisioni del Codice diventino un’attività di manutenzione ordinaria e non l’evento straordinario che si realizza una volta ogni eclisse solare.