Parto da un’affermazione drastica ma poco oppugnabile: la Psicologia italiana, negli ultimi 50 anni, non ha fatto altro che cercare (e trovare) quello che non va nelle persone.
Lavorando prevalentemente sulla clinica, sui concetti di malattia e di cura, declinando epistemologie della complessità ma comunque occupandosi di come individuare i disturbi nelle persone e di come aiutarle a venirne fuori, la Psicologia ha sostanzialmente aderito ad una vocazione “sanitaria” che sempre più rivela la sua parzialità rispetto al mandato scientifico della professione.
In questo sforzo non sono mancati successi importanti, di cui andare fieri: dopo svariati decenni di studio sappiamo molto di più delle “malattie mentali”, siamo in grado di declinarne la sintomatologia specifica e differenziale secondo le indicazioni di manuali sempre più ingombranti e zeppi di codici e numeri, siamo in grado di capirne l’eziologia e siamo anche capaci di stilare un piano coerente di intervento psicologico. Abbiamo costruito teorie, pratiche e setting per fronteggiare anche le psicopatologie più gravi e complesse – quelle ritenute incurabili e bisognose solo di contenimento manicomiale fino a pochi anni fa – e siamo in grado di esplicitare e finanche di misurare esattamente concetti fino a qualche tempo confusi, come depressione, dipendenza, personalità.
Lo scotto più evidente di questi indubbi successi, per la Psicologia, è stato, dal punto di vista culturale, un sensibile appiattimento sulla Psichiatria ma è innegabile che la nostra scienza applicata sia ora in grado di rendere le persone infelici un po’ meno infelici.
Ci sono però altre conseguenze spiacevoli, forse meno evidenti ma altrettanto complesse da delineare e superare.
Intanto, la concentrazione della Psicologia quasi esclusivamente sulla clinica è alla base della pletora di offerta di Psicoterapia e servizi affini presente oggi sul mercato. Ed è questo schiacciamento sulla clinica che ha avallato , negli stessi Psicologi quanto nell’opinione pubblica, la convinzione che la Psicologia professionale si occupi solo di ciò che non funziona nella psiche nella gente, che il suo scopo sia quello di aiutare chi soffre a riscattarsi ma che per le persone comuni l’utilità della Psicologia sia limitata ai momenti più stressanti della vita – laddove incrociano qualche loro possibile anomalia di funzionamento – oppure alle curiosità da rotocalco.
Il fatto che la grande maggioranza dei professionisti Psicologi sia concentrata sull’alleviare la sofferenza e che in questo senso la Psicologia venga rappresentato al mondo dalle sue Istituzioni (Ordini in primis) ha anche fatto si che tutta la richiesta di interventi-psicologici-non-di-cura che la società esprime cercasse risposte altrove, dando corpo ad una serie di supposte nuove professionalità, parcellizzate e tematizzate (counselor, coach, mediatori, ecc.), che si occupano della vastissima area della promozione del benessere al di fuori di qualsiasi patologia o sofferenza dichiarata.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e sono gravi, oltre che dal punto di vista economico e sociale, anche da quello della legittimazione della professione di Psicologo, che pare riconoscersi solo in un ruolo vicario alla Medicina, scienza che da sempre ha il primato dell’intervento sulla malattia e sulla cura.
Salvo poche eccezioni, a volte di eccelsa qualità, la Psicologia Applicata (e il sistema Ordinistico che la rappresenta) si è sostanzialmente dimenticata delle persone normali. Ci siamo scordati dell’obiettivo di migliorare le vite normali, come se la missione di rendere le-persone-che-non-hanno-un’etichetta-diagnostica più serene, più felici, più soddisfatte, più produttive non ci riguardasse. Come se coltivare le parti migliori delle persone non fosse tra i nostri compiti.
Complice una dominante cultura cattolica si è radicalizzato il pensiero che lo scopo più nobile della nostra scienza sia risollevare gli ultimi, lasciando che i primi si arrangino da soli. E sostenere il genio, il talento, la creatività, la soddisfazione l’abbiamo considerato sconveniente, non “politicamente corretto”.
Si è diffusamente pensato che quello che ha a che fare con la gioia, con la realizzazione di sé, col piacere, con la pienezza della vita dovesse essere guardato addirittura con sospetto, quasi potesse corrompere la natura stessa della nostra professione, a cui non smettiamo di attribuire una dimensione sacrificale, quasi espiatoria nella sua funzione correttiva del male.
Credo che, concentrandoci sul modello della malattia e nello sforzo di cercare risposte per chi è in difficoltà, nella fretta di riparare i danni, non abbiamo messo altrettante energie nello sviluppo e nella diffusione di metodi che rendono le persone più felici, perdendo e facendo perdere al mondo molte occasioni di migliorare.
Il mondo contemporaneo, invece, ci chiede sempre di più di prendere posizione e di aiutarlo ad accrescere le migliori capacità delle persone, dei gruppi e delle organizzazioni; di contribuire sia a ridurre la sofferenza che ad espandere il buon vivere, la pienezza di sé, la qualità delle relazioni; in una parola di contribuire alla felicità degli umani.
In questo senso la Psicologia deve anche essere più attiva nell’aiutare a sviluppare il genio, nel nutrire il grande talento, nell’aiutare le persone a trovare soddisfazione sviluppando le parti migliori di sé. E le istituzioni di categoria, gli Ordini soprattutto, devono prendere posizione in questo senso supportando attivamente quelle esperienze che – controcorrente – da anni propongono anche in Italia modelli di intervento a sostegno del ben-vivere individuale e collettivo.
A questo compito la nostra disciplina non può ulteriormente mancare, sia per tenere fede al suo mandato scientifico – di studio di tutti i processi psichici e mentali – sia perché sempre di più su questo versante si articola la richiesta della società (e del mercato del lavoro) alla nostra professione.
Lo sviluppo della Psicologia da qui in poi dovrà tenere conto della parzialità di un mandato sociale orientato solo alla clinica e riprendere in mano le capacità di osservazione ed intervento per sostenere il buon vivere e la felicità nel mondo. Non possono ignorarlo i Professionisti ed ancora di meno possono ignorarlo le Istituzioni che li rappresentano.
Un’ampia mole di ricerche rappresenta che siamo in grado di studiare compiutamente la felicità umana almeno quanto siamo capaci di studiare le declinazioni dell’infelicità. Un solido metodo scientifico viene applicato ormai da decenni anche in questo campo ed ha sviluppato modelli di riconoscimento e tecniche di intervento tali da poter essere applicati dalla pratica professionale praticamente in qualsiasi contesto.
Nel prossimo scorcio di ventunesimo secolo sarà osservando e comprendendo l’uomo nella sua totale complessità, nel suo peggio come nel suo sublime, ed espandendo le conoscenze per sviluppare le sue potenzialità migliori che – come Psicologi – potremo acquisire quel ruolo autonomo e quella referenzialità che sostiene il lavoro e la legittimazione sociale.
è dal giorno in cui siete nati come Altrapsicologia che aspetto un post come questo.
Complimenti Torricelli, benvenuti nel mondo reale. Grazie.
sono totalmente d’accordo: la psicologia deve smetterla di perdere delle opportunità che, non dimentichiamolo, appartengono ad una sua peculiarità. Del resto basterebbe solo rendersi conto che per far marciare meglio la Fiat Panda si realizzano i Gran Premi dove gareggiano le Ferrari. Quindi, solo attraverso un’attenta osservazione della persona di talento, con forte stima di sé, ben strutturata ed armonica in ogni sua parte, in una parola felice, possono costruirsi metodiche idonee a supportare il disarmonico, il non strutturato, colui che evidenzia dei deficit
Benissimo. Ci siamo arrivati finalmente. Ora, fuori il CNOP e la psicologia dal Ministero della Salute!
Inoltre…..come mai il terrirorio esprime delle richieste di psicologi specializzati in diverse aree, ma l’unica specializzazione della psicologia (art.3) è quella della Psicoterapia? Che altrove nel mondo, tra l’altro, è una professione a sè. In UK vi sono almeno 7 specializzazioni post-laurea triennale in psicologia, tutte professionalizzanti: psicologia clinica, counselling psychology, psicologia del lavoro, psicologia scolastica, psicologia della salute, psicologia dello sport e dell’esercizio fisico, ecc. Sono tutte a numero chiuso (la laurea per tutti è la triennale, non la specialistica!) e comportano 1 primo anno che corrisponde a circa 90 ECTS che conducono al Master’s degree. Lì ci si può fermare (ma non si avrà il titolo riconosciuto e protetto) oppure continuare altri 3 anni nella specializzazione per ottenere poi lo status di psicologo specializzato e accreditato, con la protezione del titolo. Il tirocinio non è post-specializzazione, ma durante (questo fa sentire meno solo lo studente, e consente di monitorare meglio il suo apprendimento professionale). Ciò fa sì che di psicologi accreditati in UK ce ne siano 21.000 e non 90.000 come da noi. Il CNOP si sveglia, per favore, o stanno dormendo? Al MIUR fa la voce grossa o cala i pantaloni come sempre?
Finalmente un post di Altrapsicologia che condivido pienamente e senza riserve… perché non fare un ulteriore passo avanti e sul piano normativo adoperarsi per fare uscire la psicologia dal novero delle professioni sanitarie?
Condivido… è quello che fa anche un buon coaching etico. da anni. Risolvere anche le “rivalità” e le possibili sovrapposizioni, in virtù di una visione più olistica del benessere dell’uomo. Questo si che sarebbe un bell’esempio. Trascinante.
La psicologia ha il grande merito della ricerca e dello studio della psiche umana. Sono psicologa e dopo una specializzazione in psicoterapia sistemico relazionale, sono approdata al coaching con grande “felicità” e soddisfazione.
Nel coaching decliniamo, attraverso un metodo specifico, indicazioni preziose tratte certamente anche dalla ricerca della psicologia, con le dovute differenze applicative. Ho adottato e credo nel valore delle linee guida e degli standard professionali dell’International Coach Federation. Ma esistono certamente anche altri approcci rispettabili, nel campo. Il punto è la professionalità e l’etica con cui lavoriamo. Ed è altrettanto importante avere ben chiari i confini dei vari metodi. Nel mio lavoro di coach non mi permetto di entrare in terreni di appannaggio della psicoterapia o del counselling, pur conoscendone gli strumenti. Colgo spesso rivalità tra professioni affini che non dovrebbe sussistere, ma sono convinta che dovremmo lavorare ancora di più per conoscere e approfondire le reciproche differenze, divulgarle e lasciare ai potenziali clienti o pazienti la possibilità di scegliere liberamente l’approccio più utile in un determinato momento della loro vita.
Condivido in pieno, in particolare il riferimento al mandato scientifico della nostra professione; è possibile che soprattutto alle origini dei corsi di laurea in Psicologia la visione medicalizzata della nostra disciplina sia stata nutrita anche dalla forte presenza di medici tra i docenti in particolare nel ramo clinico; ad ogni modo anche confrontarsi con quello che non si vuole essere può divenire strategico e costruttivo per la definizione della propria identità ed immagine professionale.
Aggiungo che sarebbe opportuno promuovere buone pratiche professionali come la supervisione agevolata (altro che polizze infortuni!), che favorirebbe solidarietà, educazione, creatività e felicità.
La lettura dell’articolo che titola “che aspettiamo” mi riporta un pochino alla scoperta della ben nota acqua calda, considerando che Argyle pubblica già nell’ ormai lontano 1987, basandosi su studi ben precedenti e da allora ci sono sempre stati psicologi che hanno approfondito gli studi di felicità e se ne sono occupati e se ne occupano professionalmente, come la sottoscritta. E’ un problema il fatto che non sia un fenomeno di massa tra noi psicologi come interesse professionale? Come ben sappiamo ognuno sceglie un settore da sviluppare che sente più affine a sè e alla propria natura e se la maggior parte si attestano intorno alle patologie della mente avranno i loro motivi, consci e inconsci, no? Personalmente ho trovato molto istruttivo approdare alla Felicità come area di ricerca e di lavoro dopo venti anni spesi nell’approfondimento e nella pratica della psicopatologia, in quanto psicoterapeuta e probabilmente oggi non sare un buon psicologo “della felicità” se non fossi passata attraverso i processi mentali sia sani che non. Di cosa ci si debba occupare in questa società ogni psicologo lo sa e lo fa, non mi preoccuperei troppo se alcune aree sono per il momento meno inflazionate di altre; la categoria si scontra con colossi dell’informazione e delle tradizioni antiche intorno alla salute e allo star bene ma ognuno ha sempre la possibilità di cercare di distinguersi dalla massa, indipendente dal placet dei nostri organi di categoria. Buon lavoro a tutti !