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Alcune case editrici specializzate in testistica psicologica (in Italia sono così poche che i nomi son superflui), da qualche tempo hanno adottato la politica commerciale di “oscurare i dati normativi” degli strumenti psicodiagnostici che vendono, giustificando questa pratica con il bisogno, in parte legittimo, di evitare usi illeciti (in sostanza la fotocopiatura) dei test di cui hanno licenza.

Senza campioni normativi e senza tabelle di conversione dei punteggi, noi professionisti siamo costretti ad usare ‘alla cieca’ i loro servizi di “scoring online” a pagamento.

Non c’è alternativa.

In sostanza lo psicologo si limita a inserire nel programma i punteggi grezzi, e riceve una risposta diagnostica automatica, senza nulla sapere di tutto il processo che sta nel mezzo.

Tra questi anche alcuni degli strumenti più diffusi, come la nuova WISC V, considerati “gold standard” nazionali e internazionali, e perciò necessari per la valutazione e la certificazione di problematiche quali disabilità, DSA, livello intellettivo…

In sostanza offriamo all’utente una torta dopo una rapida passata al microonde, ma nulla sappiamo della freschezza degli ingredienti.

Questa pratica incide in diversi aspetti della pratica professionale, come l’autonomia, la responsabilità, la conoscenza e la verificabilità del processo diagnostico.

Immaginiamo un paziente chiedere al professionista: ma in base a cosa mi dice che mio figlio non è idoneo a prendere la patente? O a vivere da solo? Beh, me lo ha detto il pc!

Dottore, ma è sicuro che mio figlio sia dislessico e non semplicemente straniero? Guardi, non so quanti stranieri ci fossero nel campione normativo, ma ne è sicuro il programma.

Immaginiamo di certificare l’idoneità al porto d’armi solo sulla fiducia verso un programma di siglatura terzo.

Operazione che a questo punto potrebbe fare (e in sostanza fa) anche un operatore non psicologo? Una sorta di “Architetto” alla Matrix che guida i NEOpsicologi.

Questa “opacità”, che sta creando sconcerto e reazioni forti in una parte della comunità professionale, tra alcune società scientifiche e anche nei circuiti accademici, ha sollevato molti quesiti di natura deontologica.

Il professionista che non può garantire all’utente trasparenza, verifica e conoscenza del processo diagnostico, sta operando in contrasto con il codice deontologico?

Su questo aspetto è necessario fare chiarezza rapidamente, chiediamo che il CNOP si esprima al più presto e indichi le possibili soluzioni.
Dal punto di vista legale è possibile, e va anche questo verificato, che le case editrici siano legittimate a tutelare la proprietà intellettuale e il copyright dei loro prodotti.
Se così fosse, difficilmente le si potrà costringere con la mera protesta.
Una vera azione risolutiva può farla solo il mercato, ovvero il non avere più bisogno di quegli strumenti, non utilizzarli, non comprarli, ampliare la diffusione di test alternativi e banche dati normative liberamente accessibili.
Purtroppo, le alternative ‘open’, ovvero con licenza libera, sono ad oggi poche e ancora poco riconosciute.
Ma possono più rapidamente crescere se alla costruzione di queste alternative professionisti, ricercatori, istituzioni di categoria e società scientifiche si dedicano con unità di intenti.
La quasi totalità dei docenti universitari italiani che si occupa di costruzione dei test diagnostici, ha già assunto, di recente, una posizione molto dura su queste politiche commerciali; scoraggiando la collaborazione con le case editrici che adottano politiche di opacità e l’utilizzo da parte dei professionisti di quegli stessi strumenti psicometrici.
È un primo passo importante, a cui devono seguire i passi successivi delle istituzioni di categoria.
È deontologicamente corretto utilizzare test “opachi”? Se non lo è, quali sono le alternative disponibili?
E’ venuto il momento di capire se l’unico modo di concepire il mondo della testistica è accettarlo per come si presenta, oppure se vogliamo costruire alternative.
“Pillola azzurra o pillola rossa? …Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo.”